Dopo aver promesso di ridurre drasticamente la propria impronta sul pianeta, uno dei due principali inquinatori al mondo comincia a fare i conti con gli effetti dei cambiamenti climatici. L’isola di Jean Charles, numerose cittadine in Alaska e le isole Marshall sono alcuni dei territori dove gli Stati Uniti sono coinvolti a vari livelli in programmi per il trasferimento di centinaia di persone minacciate dallo scioglimento dei ghiacci e dall’innalzamento del mare. E che creeranno i primi profughi del clima. L’intervento più avanzato si trova in Louisiana, su un’isoletta collegata alla costa da un ponte sempre più spesso allagato. Non è l’unico problema causato dal riscaldamento globale sull’Isle de Jean Charles. L’avanzata delle acque del golfo ha reso i terreni incoltivabili, le infiltrazioni saline hanno ucciso gli alberi da frutto e le inondazioni stagionali sono sempre più disastrose.
L’ isola ha già perso il 90% della sua superficie. Il piccolo centro abitato rischia di essere sommerso nel giro di pochi anni e i 60 abitanti di Jean Charles, discendenti di una tribù nativo-americana, stanno per diventare i primi 'profughi del clima' in America. Un fondo di 48 milioni di dollari per il loro ricollocamento sulla terraferma è già stato stanziato: è la prima volta che finanziamenti federali Usa vengono sborsati per spostare una intera comunità alle prese con l’impatto del cambiamento climatico. Secondo studi dell’Istituto per l’Ambiente e la Sicurezza Umana dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), tra 50 e 200 milioni di persone al mondo – per lo più agricoltori e pescatori – potrebbero essere costretti a lasciare le loro terre entro il 2050 a causa di oceani più alti.
I l piano di ricollocamento di Isle de Jean Charles, uno dei primi del genere, potrebbe fare da modello per altri. Prevede che entro il 2022 tutti i residenti siano trasferiti in una comunità costruita apposta per loro, senza che debbano separarsi e perdere i loro legami. Ma molti non vogliono andarsene. I più anziani, soprattutto, sono attaccati all’isola dove i loro antenati hanno vissuto e pescato per secoli prima di esservi sepolti in un cimitero che non vogliono abbandonare. Chi può capirli meglio di chiunque altro sono i 400 abitanti di Kivalina, seimila chilometri più a nord, all’estremo opposto del continente nordamericano. La cittadina dell’Alaska non può nemmeno essere raggiunta con una strada. Si trova su una fragile isola del mare di Chukchi, 133 chilometri al di sopra del circolo polare artico. Per generazioni, gli Inupiat della regione ha cacciato gigantesche balene accampandosi sui ghiacci che si estendono dalle coste gelate della città. Ma negli ultimi anni il ghiaccio si è assottigliato, ed è diventato troppo pericoloso cacciare le balene.
B en presto, secondo il governo degli Stati Uniti, sarà troppo rischioso vivere sull’isola, sempre meno protetta dal ghiaccio da onde devastanti. La questione che la città, lo stato dell’Alaska e la nazione stanno dibattendo è quando e come spostare gli abitanti di Kivalina in una posizione più sicura nelle vicinanze, verso l’interno o più in basso lungo la costa, al prezzo di un centinaio di milioni di dollari. Il dilemma potrebbe toccare numerose città lungo le coste degli Stati Uniti nei prossimi decenni. Ma a Kivalina il cambiamento climatico è già una forza di tutti i giorni, percepita in trasformazioni drastiche dei fenomeni atmosferici, nella perdita di mezzi tradizionali di sostentamento e nella scomparsa letterale di terreno. «Dobbiamo spostare tutte le infrastrutture, e il governo dovrebbe spostarle», ha detto Colleen Swan, membro del Consiglio comunale.
S e i soldi e il progetto per la Isle de Jean Charles sono stati un’iniziativa federale, infatti, nel caso di Kivalina il ruolo del governo degli Stati Uniti è ancora una questione aperta. Il ministro dell’Interno Sally Jewell ha fatto un viaggio di ricognizione questo mese e il presidente Obama ha proposto 50,4 milioni di dollari in spese federali per aiutare la comunità. Ma è meno della metà di quanto Kivalina avrà bisogno e il Congresso, controllato da repubblicani scettici sulla necessità di arginare i cambiamenti climatici, potrebbe non approvare nemmeno questa spesa. «Non c’è una sola agenzia governativa che ha la responsabilità di spostare una comunità, o che ha i fondi per farlo – dice Robin Bronen, un direttore del Progetto dell’Alaska Immigrazione Giustizia, un gruppo per i diritti umani –. Significa che comunità come Kivalina non sanno quali passi intraprendere per ottenere aiuto governativo».
C he gli interventi federali Usa siano stati per ora sporadici e deliberati caso per caso lo dimostra anche la situazione delle isole Marshall. L’arcipelago della Micronesia, territorio americano per quasi quarant’anni dopo la Seconda guerra mondiale e tuttora legato agli Usa da un trattato di 'libera associazione', sta sprofondando nell’oceano Pacifico. I suoi 50mila abitanti affrontano quotidianamente inondazioni sempre più rovinose che fanno straripare le fognature nelle case e si lasciano alle spalle una scia di febbri e dissenteria. Anche l’acqua potabile è stata compromessa più volte da infiltrazioni saline e di acque di scarico.
A complicare le cose, il Paese sta vivendo la peggiore siccità della sua storia, dopo aver registrato lo scorso inverno un quarto della pioggia abituale, tanto che i residenti della capitale Majuro possono aprire i rubinetti una volta alla settimana e per quattro ore al massimo. Obama ha dichiarato lo stato di calamità nelle isole e ha mobilitato la protezione civile. Ma quello che gli abitanti dell’arcipelago vogliono, e che l’Amministrazione Usa sta esaminando, è una porta aperta per gli Stati Uniti. Gli isolani sono già in grado di trasferirsi e lavorare negli Usa senza bisogno di un visto. In centinaia, costretti a lasciare l’atollo di Bikini a causa dei test nucleari degli anni ’40 e ’50, hanno creato comunità in Arkansas e in Oregon. Ora, fra chi è rimasto, molti vorrebbero poter fare lo stesso con l’aiuto economico del governo di Washington. Dopotutto se il loro destino di profughi del clima è già segnato, dicono, in buona parte è colpa dello zio Sam.
© RIPRODUZIONE RISERVATA ACQUA ALTA. L’unica strada che unisce l’isola di Jean Charles al resto della Louisiana
( Stacy Kranitz)