Uno stabile borghese a Milano, dalle parti di Porta Vittoria. Sette piani, portineria, inquilini gentili, perfino quasi cordiali. L’altra sera la sirena di un’ambulanza si interrompe proprio sotto il portone, i lettighieri spalancano rumorosamente il portellone come quando c’è urgenza, salgono di corsa. La figlia del dottor B., che rincasa, vede portare via la signora del settimo piano, ottant’anni, vedova, una badante che l’assiste e porta fuori il cagnolino.
Covid, la voce si sparge rapidamente.
È domenica, l’amministratore non si trova. Il lunedì mattina alle sette manca il sommesso singulto dell’ascensore che scende e risale: sulle scale intenso traffico di condomini in discesa, uno per volta, come in cordata. Se incrociano qualcuno si fermano di soprassalto, il buongiorno è diventato un bofonchìo sotto alla mascherina azzurra. Ci si informava, fino a poco tempo fa, reciprocamente della salute di figli nipoti e perfino del cane: ora si striscia contro il muro per evitarsi. La portinaia, nel frattempo, sparisce. Aveva detto che lunedì arrivava appena un po’ in ritardo, alle nove. Più vista. Strano, è una ragazza simpatica e loquace, non aveva detto che andava in ferie. L’inquietudine nel palazzo cresce.
A sera, i sette piani in salita. I fumatori e i sovrappeso ansimano, tenendosi stretti al corrimano – ben protetti ovviamente da guanti monouso. Si attende come una liberazione la disinfezione dell’ascensore, che intanto tutti continuano a evitare. Rientrando, alcuni disinfettano alacremente con l’alcool gli stipiti, il campanello e la maniglia della porta di casa. E le maniglie delle porte interne, e i rubinetti, e i tasti degli interruttori di corrente? Il confine fra pulizia e ossessione si fa sottile. Com’è triste il palazzo, senza la voce della signora Anna in portineria e il rumore della scopa di saggina in cortile, la mattina. Che sia positiva al tampone? Pare che spesso portasse la posta alla signora del settimo, quella che si è ammalata. Della quale, peraltro, nessuno chiede notizie. Che nervosismo, che silenzi, che ansia e quasi ossessione, nella casa milanese una volta beneducata e cordiale.
Viene in mente Charles Péguy in 'Lui è qui'. C’è una bambina della Lorena di inizio Novecento che si chiama Hauviette, e che racconta la sua giornata: la preghiera al mattino, i giochi, il pranzo, i giochi ancora, la preghiera alla sera, andando a letto. Questa bambina immagina di sentirsi improvvisamente dire: «Lo sai, Hauviette, succederà fra mezz’ora... ». E Hauviette, tranquilla, risponde : «Continuerei a filare se filassi, e a giocare se giocassi...». Quanta pace, nelle due parole della bambina di Péguy. E se fosse fra mezz’ora? «Continuerei a filare se filassi...».
Come sapendo tutto già, come naturalmente certa che la salute è una cosa bella, e questa vita lo è ancora di più; e tuttavia ce ne è un’altra, cui siamo chiamati. Esiste la salute ed esiste la salvezza – come ha ricordato ai milanesi l’arcivescovo Delpini il giorno dell’Epifania, osando questa parola quasi dimenticata. Esiste un destino ben più grande di questo, terreno, credono i cristiani. La bambina di Péguy conclude dicendo a Dio: «Ci avete richiamato un po’ presto, perché sono solo una bambina. Ma voi siete un buon Padre, e sapete ciò che fate».
E appenderla in ascensore, quella risposta di Hauviette? Fra noi ammutoliti sotto la mascherina, le mani appiccicate nei guanti di lattice, lo sguardo cupo, appendere un foglio con quelle parole semplici, di affidamento filiale, anzi infantile. Perché alla fine: mascherine, guanti, distanza, facciamo tutto, tutto necessario e doveroso. Ma, da cristiani, si può anche essere più sereni: che faccia Dio infine, Lui sa ciò che fa. Sì, pensate, le due righe di Hauviette in ascensore: «Continuerei a filare se filassi...». Giusto, come cantava Jannacci, «per vedere l’effetto che fa».