Caro direttore,
il nostro Paese è da molto tempo in difficoltà. Dopo aver raggiunto nella seconda metà del secolo scorso standard di ricchezza simili agli altri Stati più avanzati, l’Italia non è più riuscita a trovare una sua strada convincente di sviluppo, nonostante le sue grandi potenzialità. La crisi economica ha solo reso ancora più evidenti inefficienze, contraddizioni e carenze del nostro Sistema Paese e dei suoi meccanismi di produzione di benessere. La bassa crescita, la mobilità sociale inceppata, l’aumento delle diseguaglianze, hanno deteriorato la fiducia nelle istituzioni e verso il futuro. Il crollo delle nascite è forse il sintomo più evidente della combinazione tra difficoltà oggettive e clima negativo. Nelle urne del 4 marzo 2018 è entrato tutto questo ed è uscito un unico chiaro esito: la bocciatura dei partiti che maggiormente hanno assunto la guida del Paese nella nostra storia più recente. Hanno prevalso le forze politiche più critiche verso tale guida e più in grado di intercettare il malessere crescente degli elettori.
La difficoltà di leggere e governare positivamente le trasformazioni in atto (globalizzazione, innovazione tecnologica, invecchiamento della popolazione, immigrazione) porta come reazione un atteggiamento di difesa e chiusura, di rifiuto verso ciò che è nuovo e che rimette in discussione precedenti certezze, aumentando la domanda di rassicurazione. È a questa domanda che oggi Lega e Movimento 5 stelle riescono meglio di altri a rispondere. Il governo in carica non è certo la causa di ciò che non funziona nel Paese, ma è legittimo nutrire seri dubbi sulla sua capacità di dare vere risposte.
Il consenso politico basato su proposte di chiusura e difesa tende ad offrire una semplificazione distorsiva della realtà che rassicura nel presente, ma non aiuta a costruire un futuro migliore. Per le proposte di apertura la sfida è più alta e impegnativa, perché devono essere convincenti oggi (verso l’elettorato) ed efficaci nel dar riscontro positivo di un effettivo percorso di miglioramento prodotto nella vita dei cittadini.
Se, però, non si agisce con forza e convinzione nella direzione giusta, il rischio è quello di trovarsi tra dieci anni a scoprire che la crisi non è stata per la nostra società e le nostre istituzioni l’occasione per ripartire con un nuovo modello sociale di sviluppo, ma ha spostato verso il basso il percorso di crescita del Paese (schiacciato sempre più insanabilmente da debito pubblico, squilibri demografici, diseguaglianze sociali). Questi sono forse gli anni più cruciali nel determinare la qualità del futuro dell’Italia nel XXI secolo: chiudersi nel presente è il peggiore errore che possiamo fare (e la maggiore colpa sulle generazioni future), anche se nell’immediato sembra ciò che ripaga di più elettoralmente.
L’Italia può dare bellezza ai processi di cambiamento di questo secolo. Ma non potrà farlo in un clima di risentimento, paura e rassegnazione. Perché possa esprimere il meglio di sé è necessario che venga rafforzato il senso di appartenenza a un destino comune e sviluppata una visione comune di un futuro possibile e desiderato da realizzare. L’alternativa vera che oggi va costruita non è, allora, tanto quella che mira a 'far perdere' i partiti di chiusura , ma quella in grado di rendere vincente il Paese attraverso un convincente modello di apertura . Rischiano, perciò, di rivelarsi controproducenti o inefficaci iniziative che nascono per porsi 'contro' chi è 'contro', ovvero con l’obiettivo di difesa e contrapposizione alle cosiddette forze populiste. Adottare un approccio 'contro' e 'difensivista' significa accettare di operare in negativo sul terreno di un’Italia divisa anziché in positivo nella costruzione di un’idea di Italia condivisa. Di limitato impatto rischiano di avere anche iniziative che nascono come operazioni dall’alto, costruite attorno a figure politiche note (anche di valore) che in uno scenario nuovo cercano consenso attorno a una loro proposta. Una terza tentazione è quella di contrapporre frontalmente le competenze tecnocratiche al populismo. Con questi tre approcci si rischia di perdere l’occasione favorevole in questo momento storico di progettare 'dal basso' un’Italia diversa e di dare a tale prospettiva tutta la forza di imporsi propositivamente. Non mettendosi contro, ma guardando oltre.
Al rancore e alla paura che chiude in difesa del presente, va contrapposto (anzi, controproposto) il desiderio di partecipare alla costruzione di un’Italia aperta che metta in gioco le energie positive del Paese. Il modo più concreto e solido per farlo è quello di mettere assieme le realtà (i soggetti sociali) che già oggi dal basso si muovono in tale prospettiva, ovvero di connettere chi nella sua azione sul territorio già sperimenta concretamente che l’apertura è più feconda della chiusura. Un’apertura da intendere su tre direttrici (temporale, spaziale e relazionale): verso il futuro, verso l’Europa e il mondo, verso l’altro. Dare protagonismo agli attori dell’ apertura che funziona e produce valore sul territorio non significa chieder loro di farsi consenso strumentale ad operazioni politiche calate dall’alto, ma produrre assieme (grazie a esperienze concrete fatte intelligenza collettiva e messe, con metodo, a valore comune) l’idea di Paese desiderato e possibile da realizzare nei prossimi 5, 10, 15 anni. Ovvero, la costruzione concreta del luogo futuro in cui collocare capacità e specificità italiane di generare benessere e valore in coerenza con le trasformazioni del mondo che cambia. Un luogo che abbia tutta la forza di attrarci verso di sé, perché rappresenta ciò che possiamo e vogliamo diventare. Questa idea positiva di Italia da costruire progettualmente assieme dal basso (le forme possono essere varie) deve diventare il Bene comune di cui prendersi individualmente e collettivamente cura.
Senza questa operazione preliminare qualsiasi proposta di rinnovamento dei tradizionali partiti o di creazione di nuova offerta politica rischia di nascere con il fiato corto, senza vera capacità e forza di cambiare in positivo il destino di questo Paese.
Professore di Demografia, Università Cattolica di Milano