Per muoversi nel nostro mondo ipercomplesso l’accesso all’informazione è condizione sempre più necessaria. Ma nell’era del digitale non abbiamo più bisogno di farci cacciatori di informazioni. Ormai sono le informazioni che ci investono, in un flusso dal quale è molto difficile non essere travolti. Come vagliarle? Quale spazio per il formarsi di un’opinione pubblica? Tanto più che caratteristiche eclatanti di questo flusso sono la velocità, che erode il tempo del pensiero, e l’emotività, che incendia animi più che favorire opinioni. La società dell’indignazione è una società sensazionalistica che non lascia spazio al discorso, al dialogo. E dunque alla costruzione della sfera pubblica. Perché le ondate di indignazione non mostrano una «struttura di cura per la società nel suo complesso»: piuttosto, la tutela di alcuni interessi. A questo si aggiunge una velocità che non lascia il tempo per riflettere: senza re-spectare, fermarsi a guardare con attenzione, ci si limita e spectare, semplici spettatori di una informazione sempre più spettacolarizzata. Uno spunto molto critico del filosofo coreano Byung-Chul Han (Nello sciame 2015), utile per riflettere sulla questione dell’opinione pubblica nell’era della società iperconnessa, dove l’informazione rimbalza incessantemente in un ambiente ormai pienamente convergente. La stessa idea di 'opinione' è in questione: un concetto che trae proprio dalla radice op (vedere, cogliere, 'giungere con la mente') il suo significato di processo che richiede un tempo, non concesso dal dominio dell’istantaneità. Tre domande: È proprio così? È davvero colpa del web? Non c’è alternativa? Alla prima verrebbe proprio di rispondere di sì. Più che opinioni che ci invitano a una riflessione comune riceviamo slogan, ingiunzioni, insulti che ci spingono a schierarci con qualcuno contro qualcun altro. Basta guardare all’aumento della violenza verbale.
Hate speech, incitamento all’odio. Parole come armi, brandite contro migranti, minoranze, religioni. Il confine tra libertà di parola e incitazione alla violenza è molto labile. La Carta Italiana dei Diritti di Internet, del luglio 2015, riflette questa ambiguità all’art.13, dove afferma che «non sono ammesse limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero», ma insieme che «deve essere garantita la tutela della dignità delle persone da abusi connessi a comportamenti quali l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza». È comunque un dato il proliferare di stereotipi sulle minoranze e l’insulto come forma comunicativa pienamente metabolizzata anche dal linguaggio politico. Soprattutto in tempi di incertezza gli stereotipi nascono in fretta, ma poi sono duri a morire. E questo, per rispondere alla seconda domanda, non vale solo per il web. Nel suo saggio sull’opinione pubblica del 1922 Walter Lipmann scriveva: «Non c’è nulla più refrattario all’educazione, o alla critica, di uno stereotipo. Si imprime sull’evidenza, nell’atto stesso di constatarla». Profezie che si autoavverano, diventando alibi perché il comportamento violento altrui è ricondotto sempre a cause interne (sono intrinsecamente violenti) mentre il proprio giustificato da cause esterne (siamo minacciati, dobbiamo difenderci). E i media sono sempre stati grandi fucine di stereotipi. Certamente oggi i forum dei giornali on line, le pagine Facebook di molte testate nazionali sono luoghi in cui il livore, il risentimento, ma anche la superficialità e l’offesa gratuita proliferano – accanto a molto altro per fortuna. Gli
hastag, parole-chiave che consentono di indicizzare i contenuti, rintracciare un tema, inserirsi in una 'conversazione', sono anche 'cancelli' di accesso agli sfoghi verbali che si scatenano attorno a questioni calde. Basta digitare #migranti per rendersene conto. In una triste guerra tra poveri, in tempo di incertezza ed emergenza ormai cronica 'mors tua vita mea' sembra l’unico senso comune praticabile. Così, dare a qualcuno pare voler dire solo togliere ad altri. Per esempio, alla decisione del governo di estendere il bonus di 500 euro per la cultura anche ai ragazzi stranieri, ecco una reazione tra le tante, su Twitter: «IO ITALIANO ONESTO E PATRIOTA MUOIO ESODATO E ABBANDONATO MENTRE I PROFUGHI PRENDONO 500 EURO DI BONUS... BASTARDIIIIII». Il tema della 'sottrazione' si lega a quello dominante dell’invasione, cornice privilegiata di interpretazione del fenomeno che legittima la 'violenza difensiva'. Una conversazione via Twitter, tradotta dal francese: «Ricordiamo che il mughetto è una pianta iper tossica. Ingerirla provoca arresto cardiaco» - «Bisogna offrirla ai migranti allora». Possiamo definirla un contributo alla costruzione dell’opinione pubblica? Ma sul web non ci sono solo gli sfoghi dei cittadini che si sentono abbandonati e impotenti. Anche i politici, soprattutto quelli che cavalcano (e alimentano) le paure per ottenere voti, premono senza remore il pedale dell’insulto. In Europa, è di pochi giorni fa l’epiteto di 'scafisti di stato' affibbiato da un leader della destra austriaca a Merkel e Renzi per le loro posizioni troppo 'morbide' sui migranti. Negli Usa, la campagna elettorale in corso è costellata di uscite di Trump che in altri tempi sarebbero state
gaffes capaci di chiudere una carriera, mentre oggi vengono esibite con orgoglio e calamitano consensi. Gli esempi non si contano: dalle affermazioni razziste sui messicani («portano droga, crimine, sono stupratori») a quelle sessiste sulla candidata democratica («se non ha soddisfatto il suo uomo cosa le fa pensare di poter soddisfare l’America»), al turpiloquio naif sul riscaldamento globale («una costosa stronzata che deve essere fermata, il pianeta sta congelando, le temperature sono ai minimi storici») fino all’imitazione sprezzante di un giornalista disabile. Anche i leader di casa nostra non sono da meno. La parola d’ordine «Ruspa!», strumento dello sgombero forzato dei campi rom e per sineddoche di tutti gli indesiderati, è ormai un grido di battaglia dei leghisti in rete, mentre il leader della Lega Nord batte continuamente il chiodo della «nuova occupazione straniera». A forza di dire che l’informazione deve bucare lo schermo, parlare alla pancia, avvertiamo ormai tutti un senso di nausea. E gli effetti sono nefasti. Uno è l’assuefazione: la globalizzazione dell’indifferenza diventa strategia di sopravvivenza. Un altro è la reazione: lo schema buoni/cattivi, invasori/invasi traccia una cartografia dell’odio che diventa una scorciatoia per evitare la fatica di andare in profondità. Schierarsi, prima ancora di capire cosa succede. Appartengo, dunque sono. Qui la comunicazione tradisce profondamente la sua missione, che non è comunicare messaggi, bensì ridurre distanze. L’hate
speech non tesse ma taglia, non cerca di costruire un mondo comune abitabile ma di separare, disumanizzando l’altro. Se funziona così, la comunicazione ha completamente mancato il bersaglio, che è quello di allargare e far crescere ciò che ci unisce, il mondo che possiamo avere in comune. Non è, si badi bene, la rete a 'produrre' l’insulto, il razzismo. I populismi hanno sempre tratto beneficio dal sistema dei media. Già McLuhan definiva i leader dei partiti più simili a capi tribù che a uomini politici. Dunque, la risposta alla seconda domanda è no. Il web amplifica ciò che già siamo. Dandoci in più l’illusione della partecipazione. Anche perché molto spesso i nostri tweet e post non sono che rilanci. Non è un caso che il mito del
prosumer si sia un po’ appannato: le ricerche dicono che in rete siamo prevalentemente 'aggregatori' di contenuti prodotti da altri, megafoni dei nostri
influencer. L’opinione pubblica, che mira a comprendere il mondo e far circolare interpretazioni condivise, si costruisce invece nel dialogo: e il dialogo presuppone il tempo dell’ascolto (superiore allo spazio dello schieramento); e l’ascolto presuppone pensare che l’altro sia degno di essere ascoltato e non annientato. La storia di questo tempo può essere scritta solo insieme, non gli uni contro gli altri. Questa è l’unica alternativa: una comunicazione misericordiosa, che prima ancora che opinione si fa incontro.