Un operatore controlla il livello delle radiazioni a Fukushima - Pescali
L’11 marzo di dieci anni fa lo tsunami che scatenò il disastro nella centrale atomica Keiko Endo è una antinucleare della prima ora. Nel 1986 aveva solo diciott’anni quando le immagini trasmesse dalla televisione dell’incidente di Chernobyl inondarono la sua stanza restandole impresse nella mente. I commentatori e gli analisti continuavano a ripetere che non vi era pericolo per il Giappone: l’Ucraina era lontana e i venti spiravano verso ovest spingendo i radioisotopi sul Mar Baltico e sull’Europa. Keiko, però, non si lasciò convincere: a pochi chilometri da casa sua due centrali nucleari, quella di Fukushima Daiichi e di Fukushima Daini le ricordavano che Chernobyl non era poi così distante. Pochi giorni dopo, assieme alla sua amica Sachiko, fondò uno dei primi movimenti che combatteva la politica energetica nucleare, sul cui sentiero il Giappone si era inoltrato con decisione.
Non che nella nazione non ci fossero organizzazioni che contestavano l’utilizzo dell’atomo, ma sino ad allora la maggioranza di questi gruppi si concentrava principalmente sul bando degli armamenti nucleari. Del resto, la popolazione giapponese era l’unica al mondo ad aver conosciuto sulla propria pelle le conseguenze dello scoppio di bombe nucleari e proprio per questo si tendeva a demonizzare la manipolazione del nucleo atomico solo in ambito militare e non in quello civile. Keiko e i suoi amici furono tra i primi a Fukushima a contestare la presenza dei reattori nucleari. Non ebbero né molto successo, né molto seguito: la Tepco, la compagnia elettrica che gestiva gli impianti elargiva generosi finanziamenti ai comuni limitrofi, garantiva migliaia di posti di lavoro ben remunerati e, non ultimo, l’energia elettrica generata dal nucleare non emetteva inquinanti permettendo alla prefettura di creare un marchio di agricoltura biologica secondo solo a quella di Nagano. Il movimento antinucleare arrancava, ansimando, con pochi adepti e osservato con scetticismo dalla maggioranza della popolazione e degli stessi agricoltori.
Poi, l’11 marzo 2011, il Tohoku fu sconvolto prima da un terremoto e poi da una serie di maremoti. In pochi minuti la vita di centinaia di migliaia di persone venne sconvolta: ventimila morti, centinaia di miliardi di euro di danni, un’intera regione sconquassata da una marea d’acqua alta sino a 14 metri. E come appendice della furia della natura, la fusione di tre dei sei reattori di Fukushima Daiichi. La famiglia di Keiko, agricoltori biologici, riuscì a sopravvivere grazie alla gara di solidarietà organizzata tra amici che compravano i loro prodotti pur sapendo di non poterli mangiare. Altri agricoltori persero anche il 40% delle loro entrate.
Le cooperative si dotarono di contatori Geiger per analizzare ogni singolo lotto di prodotto la maggior parte dei quali, già ad un anno di distanza dall’incidente, presentavano livelli di radioattività inferiori ai limiti massimi consentiti dalla legge. E qui le comunità delle cooperative agricole e ittiche di Fukushima, ma anche della contigua prefettura di Miyagi iniziarono ad avere i primi contrasti non solo con i dirigenti della Tepco e del governo che, contravvenendo ad ogni elementare regola sulla sicurezza, spergiuravano che la situazione era sotto controllo e che non vi era alcun pericolo per la salute, ma anche con alcune delle stesse associazioni ambientaliste e antinucleari.
Per Keiko e i militanti di Fukushima fu uno choc: loro stessi, che per decenni avevano lottato contro il Golia nucleare, ora si trovavano a combattere contro coloro che avrebbero dovuto sostenerli. Sì, perché nella galassia ambientalista, oltre a movimenti seri, iniziarono ad arrivare anche nugoli di piccole combriccole (approdate per la maggior parte da Paesi esteri) che contravvenendo alle più elementari regole scientifiche e contraffacendo dati, mappe, rapporti iniziarono a disegnare situazioni agghiaccianti e apocalittiche. Si raccontava di indici di radioattività letali che coprivano i terreni di tutte le prefetture attorno alla centrale, di metropoli deserte, gente terrorizzata, reattori pronti ad esplodere rendendo il Giappone una landa desolata e inabitabile... Fu anche a causa di questa disinformazione che i canali di vendita che permettevano ai piccoli commercianti di avere una clientela affezionata a livello nazionale, si interruppero e i prodotti di Fukushima, che siano stati riso, pesche, pesce, carne rimasero invenduti.
Ci vollero anni perché la gente riprendesse fiducia, ma nel frattempo migliaia di persone hanno perso lavoro, casa, e decine di migliaia sono state costrette ad abbandonare la prefettura per trasferirsi altrove. Oggi gran parte dei terreni sono stati bonificati (su 1.653 km2 di superficie sgomberata nel 2011, 337 km2 continuano ad essere off-limits), ma sono ancora 37.000 gli evacuati che non possono rientrare nei loro villaggi. E su di loro incombe la spada di Damocle dell’insicurezza sanitaria. Nonostante l’Unscear e studi medici abbiano affermato che la quantità di radiazioni assorbite dalla popolazione a causa dell’incidente sia molto bassa e nonostante non sia possibile collegare con certezza l’insorgenza di tumori con i radioisotopi fuoriusciti da Fukushima Daiichi, la paura di sviluppare un cancro influirà per tutto il resto della vita delle vittime. Così i rapporti sociali e la società stessa nelle zone più colpite dall’evento nucleare non potranno mai più essere le stesse.
A dieci anni di distanza la centrale è stata messa in sicurezza, ma occorreranno ancora trent’anni e tra i 200 e i 700 miliardi di dollari per decommissionarla. Nel frattempo, il corium che si è depositato nei contenitori primari si è raffreddato ed ha una temperatura stabile sui 20 gradi, ma per evitare che le particelle radioattive che ancora vengono emesse si disperdano nell’ambiente, ogni giorno circa 160 tonnellate di acqua vengono fatte passare sulla massa fusa. 160 tonnellate che vanno ad aggiungersi alle 1,24 milioni di tonnellate già immagazzinate in 1.061 contenitori e che nel 2022 non potranno essere più conservate perché la capacità di stoccaggio si esaurirà. Il governo, già nel 2013 ha deciso di rilasciare gradualmente il loro contenuto nell’oceano dopo averle depurate di tutti i radionuclidi in esse contenute. Tutti tranne uno, il trizio, costoso e difficile da eliminare. Sebbene oceanografi, scienziati, tecnici abbiano assicurato che il rilascio graduale delle acque (il versamento durerà tra i 7 e i 33 anni) non influirà sulla radioattività costiera, associazioni ambientaliste e i pescatori, già colpiti duramente dall’incidente del 2011, si oppongono al programma di deflusso. Dopo aver perso quell’1% di mercato nazionale riservato alle cooperative ittiche della zona, la pubblicità negativa che deriverebbe dal rilascio di acqua leggermente radioattiva intimorisce non poco i 1.500 pescatori che oggi, per sopravvivere, contano soprattutto sui ristoranti e le rivendite locali.
Nel frattempo, il governo di Yoshihide Suga, dopo aver ereditato da quello di Shinzo Abe il Quinto piano strategico ha adottato la politica energetica suggerita dal-l’Ipcc per raggiungere entro il 2050 il taglio dell’80% dell’emissione dei gas serra. Oltre ad una strategia rivolta al risparmio energetico e al miglioramento delle prestazioni degli impianti, si è disegnato un piano per lo sviluppo di fonti meno impattanti dal punto di vista climatico che utilizzino idrogeno, Ccs (cattura e sequestro di carbonio), Ccu (cattura e riutilizzo del carbonio), energie a basso impatto ambientale, accumulatori e, naturalmente, nucleare. Anzi, il nucleare, con i reattori di quarta generazione è ora visto come fonte di energia per produrre anche idrogeno, associando le due voci e intrecciandole l’una con l’altra. Il piano prevede che entro il 2030 l’energia prodotta in Giappone avrebbe dovuto derivare per il 3% dal petrolio, 26% da carbone, 27% da gas naturale, 20-22% da energia nucleare, e il restante 22-24% da fonti rinnovabili. Così, all’inizio del 2021 l’Iaea ha annunciato che in Giappone sono di nuovo in funzione 33 reattori nucleari che generano una capacità totale di 31.679 MWe pari al 7,5% dell’energia totale prodotta nella nazione.