Nel 2015, la libertà di stampa ha toccato il punto più infimo degli ultimi 12 anni. In ogni angolo del pianeta, forze politiche, criminali, terroristiche hanno tentato di zittire i mezzi di comunicazione per tutelare o accrescere il proprio potere. Solo il 13% della popolazione mondiale ha potuto godere di una 'stampa libera'. E in questa espressione rientrano: una copertura delle notizie politiche accurata e plurale, condotta da giornalisti che lavorano in modo sereno, senza essere minacciati; e perché la stampa sia libera, è necessario che le pressioni sull’editoria, economiche e anche legali, non si facciano sentire e lo Stato si intrometta il meno possibile. Poi, vi è un 41% di popolazione mondiale che ha fruito di media 'parzialmente liberi' (anche l’Italia, sì). E infine, il 46% è stato circondato da organi di informazione 'non liberi'. È questo l’affresco che
Freedom of the press 2016, rapporto annuale elaborato da Freedom house, organizzazione indipendente per la difesa dei diritti umani, tratteggia su base globale, segnalando alcune situazioni più allarmanti per intensità o sorprendente accelerazione.
In particolare, nell’area Mena (Nord Africa e Medio Oriente), su 19 Paesi nessuno ha le caratteristiche per essere definito 'libero' dalla suddetta ricerca e solo 4 godono di una stampa 'parzialmente libera'. I rimanenti sono del tutto 'non liberi'. In questa cornice, però, al netto di Siria e Yemen, per ovvie ragioni difficile da catalogare, Egitto e Turchia sono stati protagonisti delle impennate anti-media più agguerrite. Per acrimonia verso i rappresentanti del quarto potere, l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi ha il primato nei Paesi dell’ex Primavera araba: archiviato un 2015 feroce (citiamo, fra i numerosi casi, la condanna all’ergastolo ad Abdullah al-Farkharany e Samhi Mustafa, direttore e cofondatore del sito di informazione Rassd, rei di aver seguito i sit-in dei sostenitori di Morsi nell’estate del 2013), nel solo mese di aprile 2016, 30 giornalisti sono stati arrestati per impedire loro di raccontare le proteste contro la cessione delle isole di Tiran e Sanafir, nel Mar Rosso, all’Arabia saudita. Migliaia di persone – non solo sostenitori della Fratellanza musulmana – hanno sfidato la legge anti-protesta (in vigore dalla fine del 2013,
ndr) per dire no alla svendita del territorio ai padrini wahhabiti. Il regime ha cercato di nascondere la rivolta, così come i numerosi scioperi indetti dai sindacati indipendenti da sei mesi a questa parte in tutto il Paese. Con l’incursione nella sede del Sindacato dei giornalisti, il primo maggio, si è assistito a un’escalation.
Due giornalisti del sito informativo Bawabet Yanair, che hanno seguito le manifestazioni, sono stati arrestati mentre si trovavano dentro alla sede sindacale, perquisita da un’ottantina di gendarmi. La stretta delle autorità sui giornalisti non risparmia i corrispondenti stranieri: il reporter francese Remy Pigaglio, corrispondente al Cairo da metà 2014 per il quotidiano cattolico
La Croix e l’emittente radio
Rtl, non è potuto entrare in Egitto al ritorno da una trasferta. Nessuna motivazione è stata addotta al suo arresto all’aeroporto del Cairo: passaporto e telefono gli sono stati sequestrati e restituiti il giorno successivo, dopo una notte trascorsa in cella. La diplomazia francese non ha potuto niente contro la misura di rimpatrio; i colleghi al Cairo, invece, denunciano «la crescente repressione dalle autorità esercitata sui media egiziani e stranieri». Nel frattempo, il regime ha affinato i propri strumenti di controllo: mentre riunioni a porte chiuse fra presidenza, editori e direttori di testata avvengono in modalità ormai routinaria, l’informazione su web è il grande osservato speciale. Nei mesi precedenti il voto parlamentare (un lungo processo elettorale che ha richiesto oltre 60 giorni, nell’autunno del 2015), la creazione di un Consiglio superiore per la cybersicurezza ha messo in evidenza il grado di allarme degli apparati statali nei confronti di internet, il mezzo di comunicazione che ha coadiuvato le Primavere.
Tipica degli altri media è, invece, l’autocensura degli operatori, inferta a se stessi per non incorrere in multe salate o, ancor peggio, in pene detentive senza ritorno. Cioè quelle previste dalla Legge antiterrorismo entrata in vigore nell’agosto del 2015 (ma già concepita a fine 2013), di ampia copertura e ambiguità linguistica: nel mirino c’è qualsiasi comportamento lesivo dell’unità dello Stato, della sua dignità, immagine, sicurezza, stabilità e altro ancora. Ecco dunque che la tragedia del volo EgyptAir A320 da Parigi a Il Cairo, precipitato al largo della costa egiziana, è l’ennesima occasione in cui verificare in quale terreno minato si muovano i giornalisti egiziani nello svolgere il loro lavoro: le informazioni pubblicate dai mezzi filo-governativi sono solo quelle autorizzate dagli Interni; siccome però non c’è ancora una versione ufficiale definitiva, gli stessi esperti del ministero ed investigatori, seppure assai parchi nelle loro dichiarazioni e spesso anonimi, sono continuamente smentiti dallo stesso ministero. Non solo
Freedom of the press, ma anche
Reporters without borders assegna a Il Cairo uno degli ultimi posti della classifica della libertà d’espressione, seguito da Riad, Sanaa, Tehran e Manama.
E' tristemente famoso il blogger attivista per i diritti umani Saif Badawi, saudita, che sconta una pena di mille frustate per offesa all’islam (una modalità di punizione sempre più frequente anche in Bangladesh, in questa prima metà del 2016). I dati sull’Iran invece contrastano con la visione rosea che la stampa occidentale ha dato della recente affermazione dei moderati alle elezioni parlamentari. E riportano alla brusca realtà gli osservatori: ad aprile di quest’anno, 4 giornalisti sono stati condannati a pene detentive comprese fra i 5 e i 10 anni per «aver fatto propaganda contro lo Stato e attentato alla sicurezza nazionale». I mezzi di comunicazione 'liberi di parlare' sono quelli che veicolano le informazioni plasmate dai Guardiani della rivoluzione. O, come ribadiscono gli esuli, quelli editi all’estero. Ma è nella Turchia 'quasi europea' che si registra un precipitare della situazione: muovere una qualsiasi critica nei confronti del presidente Recep Tayyep Erdogan è sempre più rischioso, vista la facilità con cui giornalisti, blogger, utenti del web incorrono nell’accusa di diffamazione, ingiuria, attentato ai simboli della nazione.
Nel 2015, le autorità turche, segnala
Freedom house, hanno inquisito persino un medico che aveva messo in rete un’immagine ironica del presidente in versione Gollum (celebre 'cattivo' della saga 'Il signore degli anelli'). Detto questo, la questione è assai seria: dai primi anni Duemila in poi, decine di giornalisti sono stati incarcerati in Turchia con svariate accuse: di base, crimini connessi con il terrorismo, curdo o islamista. L’ultima vittima di un meccanismo liberticida collaudato è Can Dundar, direttore del quotidiano
Cumhuriyet, condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione per spionaggio, minaccia alla sicurezza dello Stato e sostegno a gruppi terroristici. La testata ha svelato in un’inchiesta la connivenza fra servizi turchi e Stato islamico. Sulla sfondo di questa vicenda ci sono centinaia di reporter che, nel tempo, sono stati convinti ad abbandonare il mestiere. Alle testate 'irriducibili', che hanno continuato ad essere critiche nei confronti dell’Akp, il partito di maggioranza Giustizia e sviluppo, dal 2003 sulla cresta dell’onda, sono state bloccate le rotative in modo più sottile: ridotte alla bancarotta, strozzate da multe per presunte evasioni fiscali colossali, sono state comprate da gruppi editoriali o industriali vicini alla presidenza e trasformate in megafoni del potere. E tutto questo perché le elezioni sono libere, ha scritto recentemente l’editorialista di Hürriyet Daily News Mustafa Akyol: «Poiché (Erdogan e i suoi sostenitori) non possono controllare le urne, allora devono influenzare i principali canali di accesso alle menti degli elettori». La Turchia di oggi, conclude amaramente la nota penna, «è una democrazia illiberale».