Le pandemie colpiscono un’ampia percentuale della popolazione e richiedono una risposta multisettoriale per diversi mesi, o addirittura per anni. Una pandemia da virus a trasmissione respiratoria, quindi altamente contagioso, può essere vinta solo con decisioni basate sull’evidenza scientifica rapide e tempestive, coordinate a livello internazionale o, come minimo, nazionale.
È quello che abbiamo fatto in Italia per fronteggiare la prima fase di Covid-19, da febbraio a maggio, resi consapevoli – anche e soprattutto grazie ai messaggi inequivocabili del governo nazionale e del ministro della Salute – che non ci poteva essere "normalità" senza prima appiattire la curva epidemica.
Nel ripartire più cautamente di alcuni Paesi vicini, rapidamente ripiombati nella seconda fase, avevamo anche stilato un piano articolato in 5 punti per evitare il ritorno alle situazioni drammatiche di marzo. Tutto questo è stato largamente sottovalutato e, in molte Regioni, del tutto ignorato. Il nuovo coronavirus si è evoluto per diffondersi, è ancora virulento e patogeno, è lo stesso (con qualche piccola variazione) degli esordi: la differenza nei danni prodotti dipende esclusivamente dalla capacità di governi, istituzioni internazionali e organizzazioni sanitarie di recepire le evidenze prodotte da una comunità scientifica spesso dipinta come divisa a causa di isolati outsider, ma in realtà unitissima nel proporre soluzioni rigorose ed efficaci.
Quello che è successo in Israele, Spagna, Stati Uniti, Regno Unito e Francia, e che sta succedendo in Belgio, Paesi Bassi, Polonia e Repubblica Ceca, avrebbe dovuto insegnarci che abbassare la guardia troppo presto produce danni terribili. Questi Paesi hanno vissuto prima di noi una seconda ondata epidemica che può diventare più grave della precedente: i nuovi contagi giornalieri nelle ultime due settimane sono stati migliaia, e nonostante si sia abbassata l’età dei contagiati le unità Covid dei principali ospedali si stanno riempiendo. È quello che ora sta drammaticamente succedendo a noi. A fronte di questa minaccia epocale, quasi tutte le autorità politiche – in Italia e altrove – stanno seguendo una strategia controproducente, esitando su misure più severe. Temono ancora di danneggiare l’economia, ma non capiscono che così stanno causando un doppio danno: rimandando le restrizioni, i governi si vedranno poi costretti a prendere decisioni di chiusura totale che saranno ancora più dannose sotto tutti i profili, incluso quello l’economico.
Non è difficile comprendere che una crescita esponenziale con questo ritmo sia assolutamente insostenibile e che, se prima era possibile prendere misure "proporzionate" che si fermassero prima della "chiusura" nazionale, ogni momento che passa in una seconda fase epidemica, potenzialmente più pericolosa di quella che ha già devastato l’Italia, questo diventa sempre più difficile.
Due i motivi: il virus non è più concentrato nelle aree settentrionali, più ricche e con sistemi sanitari migliori; e la seconda ondata sta avvenendo in autunno, piuttosto che in primavera. Stiamo andando verso l’inverno, quando tornano i virus dell’influenza e della parainfluenza. Quindi rischiamo due epidemie sovrapposte, con sistemi sanitari già duramente provati. Dopo mesi di sofferenze, tutti vorremmo tornare alla "normalità": non avere limitazioni di movimento, frequentare qualsiasi ambiente, abbracciarci, affollarci, divertirci. Tutti vorremmo riprendere le attività che svolgevamo "prima", senza nessun condizionamento o dispositivo da indossare. Ma è bene che la politica abbia il coraggio di dire che ciò non sarà possibile ancora per molto tempo e prenda le misure sanitarie ed economiche necessarie, anche per prevenire disordini sociali di cui si vedono le prime avvisaglie.
Non ci sarà ripresa economica senza sicurezza sanitaria, l’esempio di Regno Unito, Stati Uniti e Brasile, dove le evidenze scientifiche sono state ignorate a favore di quelle economiche, sono eclatanti: mai prima nella storia questi Paesi avevano avuto un tracollo sanitario ed economico di queste dimensioni. Per tale motivo l’Italia deve continuare sulla strada del rigore, ma anche attivare una nuova strategia supportata da piani operativi a livello nazionale e regionale adeguati alla nuova fase della pandemia. In concreto:
1) Bisogna mettere in piedi un sistema di sorveglianza sanitaria in grado di intercettare e quindi attivare precocemente gli interventi più idonei per arginare crisi sanitarie come quella che stiamo vivendo. Per far questo si dovrà procedere speditamente con la digitalizzazione delle informazioni, un processo quanto mai auspicabile non solo per il settore della sanità ma per tutto il Paese e su cui siamo in enorme ritardo.
2) Occorre intensificare la capacità di test e tracciamento rapido per la tempestiva limitazione dei focolai di infezione: in questo contesto è cruciale il rafforzamento dei dipartimenti di prevenzione delle Asl e il varo di un’aggressiva campagna di informazione e di promozione del tracciamento tecnologico.
3) È necessario il potenziamento dei servizi sanitari, ospedalieri ma soprattutto territoriali, per evitare la concentrazione dei casi in ospedale, con il rischio di una diffusione nosocomiale del contagio, e per consentire una rapida, efficace e sicura ospedalizzazione per i pazienti che necessitino di cure sub-intensive e intensive.
Doveva essere fatto nei mesi estivi. Non è stato così, e sarebbe il caso di approfondire il perché. Ma se non ci muoviamo immediatamente saremo destinati ad avere uno tsunami che sommerà emergenze sanitarie, economiche, finanziarie e politiche che possono scuotere i pilastri della nostra democrazia. Dobbiamo assolutamente evitarlo.