Nei nostri umani panni
sabato 22 febbraio 2020

«Qui mi sembra che con tutta la loro scienza non riescano a venire a capo del virus. Sapete la verità? Che se non si prega ghe nient de fa, non c’è niente da fare…». L’anziano sacerdote ambrosiano conosce bene la sua gente, che a Messa ne ascolta sempre volentieri le sapide omelie condite col dialetto milanese: il marchio di un buon senso del quale noi tutti vittime di troppo stordimento digitale avvertiamo il deficit.

Specie quando la cronaca strattona la nostra attenzione per proporci notizie inquietanti mescolate a soluzioni che sotto l’apparenza logica mostrano, a gioco lungo, una sostanziale sproporzione rispetto ai problemi umani che vorrebbero mettere sotto controllo. Invece no, il virus – come la natura, di cui in fondo è semplicemente un’espressione patologica – non sta alle nostre regole, segue l’algoritmo della biologia, non sempre risponde ai codici che governano i computer delle autorità sanitarie. E succede che si prenda gioco dei protocolli di sicurezza messi in campo con impegno, generosità e competenza da organizzazioni sovranazionali e governi.

Gli stessi che però stanno prendendo atto di una realtà differente rispetto ai loro pur calibratissimi modelli. A prendere il centro della scena non sono solo i comportamenti umani – il contagiato che sfugge alle maglie dei controlli preventivi al rientro in patria dall’estero – ma soprattutto le dinamiche proprie della diffusione virale, immateriali e inafferrabili, che prendono alle spalle l’immenso spiegamento di forze allestito su scala globale per fermare la pandemia. Si pensava bastasse un robusto cordone sanitario attorno alle pur vaste zone di incubazione della misteriosa malattia, si scopre che è necessario estenderne il perimetro ben oltre la Cina, persino in casa nostra.

L’arrivo del virus in Italia, ritenuto quasi inevitabile ma a lungo pensato come un’eventualità in fondo remota, è avvenuto tra Lombardia e Veneto, nelle regioni cioè che vantano il sistema sanitario più efficiente, ricco e invidiato, come in un’aperta sfida alle nostre sicurezze. Una provocazione che fa il paio con la prima significativa esportazione del virus fuori dai confini cinesi, con la confortevole nave da crociera attraccata nel porto di Yokohama, metropoli di uno dei Paesi più tecnologizzati del pianeta. Lì si è assistito a una prova da manuale della fragilità di sistemi ritenuti perfetti di fronte all’irrompere dell’imprevisto mosso da dinamiche naturali: anziché sbarcare le poche decine di contagiati per isolarli dalle migliaia di passeggeri sani, la scelta di un Paese pure ritenuto modello planetario di efficienza è stata di lasciarli a bordo, così che nel giro di pochi giorni i malati si sono contati a centinaia, come in un lazzaretto galleggiante, con la tragedia dei primi morti. Una leggerezza spiegabile solo con la pretesa di pensare a un caso isolato, un incidente di percorso cui porre argine con una elementare prova di forza.

E mentre i media diffondevano le rassicuranti immagini di imponenti apparati di sicurezza dispiegati per trasferire senza rischio alcuno persone che anche solo in via ipotetica potevano fungere da involontari taxi del contagio, e al coronavirus si trovava l’etichetta catalogatoria di Covid-19 (come a volerne congelare la pericolosità emotiva), la malattia seguiva le sue dinamiche apparentemente indifferenti a tanta attenzione, mostrando di non essere stata forse compresa nella sua essenza da un mondo digitalizzato che si ritiene immune rispetto a manifestazioni di potere non tecnologico. Quando si è convinti di aver messo ormai sotto tutela la natura con la smisurata forza della scienza e dell’intelligenza artificiale, l’idea stessa di fenomeni incontrollabili sembrerà una bizzarrìa, per stroncare la quale parrà sufficiente mettere in campo qualche procedura in più.

Ma questa quarantena culturale sembra improvvisamente fare acqua, e ci scopriamo come siamo: creature vulnerabili, spaventate quando si scoprono nude al cospetto di un mondo fattosi minaccioso, sintomo ulteriore di un equilibrio perduto con il creato del quale ci si credeva sovrani e padroni. Non basta schioccare le dita della tecnologia: perché tanta conoscenza sia davvero efficace, e possa farci sentire al sicuro dall’imprevedibile manifestarsi dell’ignoto, occorre spogliarsi della pretesa di onnipotenza alla quale ci ha indotti tutto ciò che viene mostrato e che ci è messo a portata di mano come fosse nostro, un’illusione che si alimenta mille volte al giorno semplicemente attivando il nostro (potentissimo) smartphone.

La tecnoscienza non può tenerci al riparo da qualunque accadimento. Siamo noi una volta ancora a doverci guardare per ciò che siamo, incompiuti e bisognosi. Il gesto della preghiera – insieme alle migliori espressioni dell’ingegno, s’intende – forse è davvero ciò che ora ci serve per tornare nei nostri veri panni umani.

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