Comunque vada a finire, dall’inchiesta in corso sulla Consip si possono già ora trarre diverse lezioni. Non certo nel merito (ancora tutto da capire e da dimostrare), ma sugli spinosi fronti della gestione delle indagini giudiziarie e del finanziamento alla politica. Su quest’ultimo ci ripromettiamo di tornare prossimamente, mentre sul primo aspetto è impossibile non notare il paradosso di un fascicolo divenuto "famoso" in seguito a una presunta fuga di notizie (quella ipotizzata a carico del ministro Luca Lotti e del comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette a favore dei vertici della Consip) e adesso al centro di uno scontro più o meno sotterraneo che riguarda proprio le continue "emorragie" di atti istruttori. La chiave per leggere i fatti è nel comunicato diffuso sabato scorso, tramite il quale la procura di Roma ha reso noto di aver revocato al Noe (il Nucleo dei Carabinieri per la tutela dell’ambiente) la delega a indagare sulla vicenda, alla luce di «ripetute rivelazioni di notizie coperte da segreto». La delega al Noe l’aveva assegnata la procura di Napoli, che tuttora si occupa del filone principale dell’inchiesta. Ed è una collaborazione di lunga data quella che lega il sostituto procuratore partenopeo Henry John Woodcock al Noe, un’intesa cementata dalla reciproca stima tra il magistrato e Sergio De Caprio, il leggendario "Capitano Ultimo" che catturò Totò Riina. A questo punto la matassa, se possibile, s’intrica ancora di più. Perché "Ultimo" è stato trasferito dal Noe ad altro incarico nell’agosto di due anni fa: la firma in calce a quell’atto di avvicendamento, ovviamente, è del comandante generale Del Sette. De Caprio, allora, non la prese affatto bene. Adesso Del Sette è indagato. E la procura di Roma revoca la delega di polizia giudiziaria al Noe per darla sempre ai Carabinieri, ma a quelli del Nucleo investigativo della Capitale.
Un gran ginepraio, insomma, nel quale il non detto sopravanza il detto, ma che lascia emergere chiaramente un clima assai poco sereno per lo svilupparsi di un’indagine su una società incaricata di spendere i soldi dei contribuenti italiani. Ricapitoliamo: divergenze tra procure, malumori all’interno dell’Arma, informative "riservate" che finiscono sistematicamente su alcuni giornali.Ieri gli inquirenti romani e napoletani si sono incontrati a Piazzale Clodio per cercare di stringere i bulloni di un rapporto difficile. Un’iniziativa doverosa. La credibilità, ma anche solo l’immagine, di chi indaga non è un bene pubblico meno prezioso di quella della classe politica. E la credibilità, oltre che ovviamente alla correttezza nell’operare, è dovuta anche al grado di riservatezza che si riesce a mantenere intorno alle indagini.
Non esistono "santuari" impenetrabili alla libera stampa, per carità. Ma esistono diverse fasi e differenti atti. Un processo importante si può, anzi si deve, raccontare per filo e per segno. Una sentenza, di assoluzione o di condanna, va spiegata al lettore fin nei particolari. Però spesso non lo si fa, o non lo si fa abbastanza, perché lì non c’è segreto da violare, sospetto da seminare, eventualmente fango (o veleno) da schizzare. Nella fase precedente, le indagini preliminari, si può e si deve raccontare che un’inchiesta esiste, che il tale o il tal altro risultano indagati (senza riguardo al ruolo o all’importanza dei nomi, ci mancherebbe), si può riferire degli interrogatori attraverso i legali delle persone ascoltate, testimoni o inquisiti.
Forse meno utile all’informazione, ma sicuramente più efficace ad alimentare polemiche e clamori, è invece lasciar filtrare materiale grezzo, raccolto dagli investigatori non per la divulgazione, ma per girarlo alla magistratura: brogliacci, trascrizioni di intercettazioni, informative nelle quali si possono legittimamente formulare ipotesi, collegare nomi, tracciare scenari. Tutto da vagliare e verificare... dopo essere finito in prima pagina. C’è davvero da chiedersi a chi convenga un simile imbarbarimento e per quali motivi. E sarebbe ora di smetterla, per concentrarsi sullo Stato di diritto.
Per riflettere, ad esempio, sul fatto che in vent’anni in questo Paese non riusciamo a emettere la sentenza definitiva sullo stupro di una bambina, ma in compenso sappiamo tutto sui vari "Mister X", veri o presunti che poi si rivelino. Una bella soddisfazione.