giovedì 20 aprile 2017
Una rivoluzione dei tempi dovuta all’aumento dell’età. Paesi come Italia, Giappone e Spagna nel 2050 avranno un picco di over 65, pari a un terzo della loro popolazione
Con più anziani e «malati» il lavoro dovrà cambiare
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«Un disastro imminente, un disastro per la salute, per la società e soprattutto per le economie nazionali». Sono queste le parole del Direttore Generale della Organizzazione Mondiale della Sanità riprese dal Rapporto Osservasalute 2016 promosso dall’Università Cattolica e dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane per indicare non una nuova catastrofe naturale o il pericolo di una guerra mondiale ma la diffusione sempre maggiore delle malattie croniche. Oggi in Italia quasi quattro persone su dieci hanno una malattia cronica e molti di loro sono lavoratori. E se oggi il dibattito sul futuro del lavoro si sta concentrando quasi unicamente sul tema della tecnologia, del rischio di sostituzione dei lavoratori con l’automazione, poco si dice sulle conseguenze degli epocali cambiamenti demografici che stiamo vivendo. Il network europeo per la promozione della salute nei luoghi di lavoro ha stimato che in Europa quasi il 25% della popolazione in età di lavoro soffra i disturbi di almeno una malattia cronica e che la quota di malati cronici che lavora sia pari al 19% della forza-lavoro.

Per contro le proiezioni al 2020 e al 2060 del tasso di partecipazione al mercato del lavoro in Europa degli over 55 – e cioè della fascia di popolazione economicamente attiva maggiormente soggetta a un significativo rischio di abilità solo parziale o intermittente al lavoro – registrano, rispettivamente, un incremento di 8,3 e 14,8 punti percentuali. Nell’area dell’Euro l’impatto stimato è ancora più marcato con un incremento degli over 55 di 10 punti percentuali da qui al 2020 e di 16,7 punti percentuali nel 2060. Certo è che, nel lungo periodo, la partecipazione al mercato del lavoro di persone affette da malattie croniche diventerà imprescindibile per affrontare il declino dell’offerta di lavoro e la carenza di forza-lavoro qualificata unitamente alle pressioni sui sistemi pensionistici indotte da un drastico invecchiamento della forzalavoro, con Paesi come Italia, Giappone e Spagna destinati a registrare nel 2050 un picco di over 65 pari a un terzo della intera popolazione. Una situazione che è tale perché negli ultimi decenni la ricerca medica ha fatto enormi passi avanti consentendo a persone affette da tali patologie di non essere condannate né ad una vita breve né ad una vita senza lavoro. E se pensiamo che soltanto nel nostro Paese la popolazione under 50 è diminuita di 1 milione di unità negli ultimi tre anni mentre quella over 50 è cresciuta di 1 milione capiamo che l’Italia si trova pienamente immersa nelle dinamiche descritte.

Fatto questo quadro sono due le conseguenze principali che occorre visualizzare in modo chiaro. La prima riguarda i costi sanitari di questo scenario, già oggi in Europa si stima una spesa di 700miliardi di euro per la cura di malattie croniche, per un valore che oscilla tra il 70 e l’80% dell’intero budget sanitario. E aumenta costantemente, allo stesso tempo, il numero di persone che richiede congedi per malattia o anche pensioni anticipate e assegni di invalidità di lungo periodo che, in alcuni Paesi, già oggi riguardano il 10% della forza lavoro. Basti pensare che una stima della Harvard School of Public Health (HSPH) per il World Economic Forum sostiene che tra il 2011 e il 2030 si registrerà una perdita cumulata di output di 47mila miliardi dollari a causa di malattie croniche e di malattie mentali in termini di prestazioni sanitarie e previdenza sociale, ridotta produttività e assenze dal lavoro, disabilità prolungata e conseguente riduzione dei redditi per i nuclei familiari interessati. E questo apre alla seconda questione, più interessante e più sfidante. Infatti gli aumenti di spesa e l’insostenibilità evidente che si evince dai dati mostrati si alimenta e si aggrava attraverso un mondo del lavoro che ancora non sa come affrontare la presenza di una sempre più ampia fetta di malati cronici all’interno dei suoi componenti.

Non sempre le richieste di pensione anticipata o di congedo è data dall’effettiva impossibilità fisica di lavorare, ma dall’assenza di un contesto lavorativo che possa conciliarsi con i limiti generati dalle patologie. Ad esempio orari di lavoro poco flessibili, basati unicamente sulla presenza in tempi definiti all’interno dell’impresa possono non essere compatibili con esigenze di cura che, invece, renderebbero abili al lavoro persone da altri luoghi e in tempi differenti. Pensiamo altrimenti all’organizzazione del lavoro, spesso ancora legata a modelli fordisti altamente standardizzati, in cui la produttività individuale viene valutata senza alcuna differenza tra soggetto e soggetto. Prova di questa incompatibilità di fondo tra lavoro e malattia cronica, nel mercato del lavoro attuale, sono le stime dell’Ilo che certificano che se in Europa su 100 disoccupati 66 hanno la possibilità di trovare un lavoro, questo numero si riduce a 47 per i malati cronici.

Le relazioni industriali e la contrattazione collettiva sono un aspetto centrale in queste dinamiche. Sono infatti i contenuti stessi di concetti come quelli di 'presenza al lavoro', 'prestazione lavorativa' o 'esatto adempimento contrattuale' che spesso oggi non tengono conto dei cambiamenti demografici. L’utilizzo unico di parametri oggettivi, che non tengono conto delle esigenze del singolo, rischiano di far diventare le pur giuste tutele sancite dai contratti una gabbia per una fetta sempre più importante di lavoratori. Si tratterebbe quantomeno di mettere a punto un rinnovato e più elastico contenuto della prestazione lavorativa in funzione dei radicali cambiamenti in atto nella società come nei contesti produttivi e di organizzazione del lavoro. La vera sfida a cui siamo chiamati quindi è quella di costruire un lavoro che si adatti alle esigenze della persona, e non obbligare la persona ad adattarsi ad un lavoro che va contro le sue esigenze di salute. Un cambio di paradigma che, al tempo stesso, può diventare un vero e proprio piano strategico di azione per portare a piena maturazione e compimento complessi processi di riforma dei sistemi di welfare e di relazioni industriali oggi avviati in Europa messi in pratica solamente di fronte ad emergenze e che ancora faticano a diventare una prassi.

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