giovedì 17 agosto 2017
Robot e Internet sembrano portare a un'ulteriore erosione occupazionale ma si prevede la crescita dei lavori nella «white economy», dalla salute ai servizi per le famiglie
Con lo stile del servizio
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La crescita dell’occupazione nei servizi, a scapito di quella in agricoltura prima e nell’industria poi, è un fenomeno di lunga data nei Paesi avanzati. In Italia è a partire dagli anni 70 del secolo scorso che si registra un aumento significativo degli occupati nei servizi, che superano, con il cambio di secolo, il 50% sia del valore della produzione che di quello dell’occupazione. Anche nel periodo più recente, nel quale la crisi economico-finanziaria ha prodotto disoccupazione e riduzione degli organici in tutti i settori, i servizi hanno mostrato una capacità di tenuta notevole, soprattutto per quanto riguarda i servizi alla persona (ricreativi, culturali, sociali e sanitari). Gli occupati nel settore dei servizi sanitari, sociali e alla persona sono aumentati dal 2000 al 2012 del 40% in Europa e del 70% in Italia, raggiungendo la cifra di oltre 25 milioni in Europa e di 2,5 milioni in Italia. In termini economici si tratta di un valore aggiunto per l’Italia di 98 miliardi di euro, pari al 7% del totale. I professionisti del cosiddetto settore della white economy – medici, tecnici della salute e dei servizi sociali, altre professioni sanitarie e sociali e personale dei servizi domestici – erano nel 2012 circa 2,1 milioni di unità, il 9% del totale degli occupati. Per quanto riguarda il lavoro domestico, secondo i dati più recenti dal 2007 al 2015 i lavoratori del comparto sono aumentati del 42% e si stima che le famiglie italiane spendano per i loro collaboratori circa 7 miliardi di euro all’anno, di cui un miliardo per i contributi. Il settore rappresenta il 3,5% di tutti gli occupati, contro una media europea dell’1%. Si tratta in valori assoluti di 886.125 lavoratori, in gran parte stranieri, ma per il 17,1% italiani, aumentati questi ultimi del 10% in 7 anni.

Le previsioni rispetto al futuro segnalano l’ulteriore effetto negativo sull’economia e sull’occupazione che avrà la cosiddetta quarta rivoluzione industriale: robot, stampanti 3D, biotecnologie, comunicazione online, internet delle cose, sharing economy, e altro ancora, tutto concorrerà a bruciare posti di lavoro (dai 5 ai 7 milioni solo in Italia secondo alcune stime). E si prevede che le uniche attività che non potranno subire riduzioni, per motivi legati alla crescita della domanda – in primo luogo – ma anche agli orientamenti culturali e valoriali rispetto alla qualità della vita – in secondo luogo –, siano di nuovo quelle dei servizi, e in particolare dei servizi alla persona. Secondo Italia Lavoro il comparto entro il 2020 creerà 500mila nuovi posti di lavoro in Italia, come è ovvio aspettarsi vista la forte crescita della domanda di servizi alla persona a seguito dell’allungamento della vita e della crescita degli anziani, ma anche della sempre maggiore diffusione di malattie croniche, disabilità, stress e patologie psichiche, difficoltà delle famiglie rispetto alla cura dei soggetti bisognosi di tutela (minori e malati), come ampiamente documentato da alcuni decenni a questa parte, da quando cioè l’economia e i contesti di vita hanno messo in crisi il modello di welfare familiare tipico del nostro Paese. Una necessità sociale espressa dal basso davvero ineludibile, che ha trovato i suoi spazi e le sue forme di risposta in maniera spesso spontanea e al di fuori dei canali ufficiali del mercato del lavoro, ma che ha anche esercitato una pressione sul sistema dei servizi istituzionali pubblici e privati. Un 'welfare nascosto', che si è sviluppato senza un progetto di revisione sistematica, in gran parte con la mobilitazione di ingenti risorse private da parte delle famiglie, assieme alla finalizzazione di trasferimenti monetari da parte dell’Inps e ai tentativi crescenti, anche se ancora del tutto insufficienti, messi in campo dagli enti locali (per il sociale) e dalle unità sanitarie (per la salute e la non autosufficienza) nel tentativo di adeguare l’offerta alla domanda.

Basterebbero questi dati a dimostrare la necessità di porre al centro delle riflessioni dell’incontro di Cagliari il tema del lavoro di cura e per la persona. Ma c’è di più, e ancor più importanti sono i contenuti valoriali e sociali che questo tipo di lavoro porta con sé, cui viene dedicata ben poca attenzione. Innanzitutto la crescita di una sensibilità nuova nei confronti della qualità della vita collettiva e delle comunità. Sebbene le logiche della produttività, dell’efficienza e del funzionalismo siano ancora preponderanti, il venire a maturazione di una serie di tensioni ed esigenze sociali e ambientali sta producendo una consapevolezza nuova nei confronti dei limiti di uno sviluppo e di un lavoro finalizzati ai soli consumo e profitto. La qualità della vita di tutti, e in primis dei soggetti deboli, e l’uguaglianza delle opportunità, diventano aspetti da considerare anche nelle attività lavorative, e non solo nella sfera del privato. Libertà, creatività, partecipazione, inclusività, così importanti nei lavori di cura e per la persona, cominciano a contaminare anche altri settori lavorativi. La qualità della convivenza di una comunità territoriale, di una regione, di un Paese, il capitale culturale e sociale che si alimenta attraverso lo sviluppo della cultura e della socialità, non sono più aspetti collaterali e separati, da tenere relegati nella sfera del privato, ma trovano cittadinanza anche nella progettazione economica e lavorativa complessiva, e il nuovo approccio comincia a farsi strada nei programmi di sviluppo sociale e dell’occupazione negli ambienti più avveduti e nelle progettazioni più avanzate. In particolare le donne e i giovani, da sempre più sensibili all’innovazione e alla cultura, traggono dal patrimonio delle esperienze di lavoro di cura all’interno della famiglia (soprattutto le donne), del volontariato sociale, religioso, ambientalista (soprattutto i giovani), e dell’assistenza agli anziani, ai minori in difficoltà, ai disabili, ai portatori di disagio psichico (per chi vi si trova immerso come familiare o come operatore, di nuovo soprattutto donne, giovani, ma anche stranieri), la forza di proporre una revisione radicale dei princìpi guida del mondo del lavoro, nella direzione di un nuovo approccio di sostenibilità sociale a lungo termine e di rispetto delle risorse umane e sociali e dei diritti sociali.

In secondo luogo lo sviluppo dei lavori di cura e dei servizi alla persona porta con sé un altro importantissimo valore aggiunto, quello della rivalutazione della dimensione relazionale e umanistica dell’attività lavorativa. Sia che si tratti di medici, di assistenti sociali, di psicologi, di operatori socio-sanitari, di infermieri, di consulenti familiari e del lavoro, o di altro ancora che riguardi la persona, i lavoratori del comparto della cura e del sociale sperimentano sulla propria pelle la non sostituibilità dei valori della relazione umana significativa, della comunicazione profonda e della salvaguardia della umanità individuale nei rapporti lavorativi. Un approccio che ha subìto per lungo tempo il rischio di essere relegato nell’ambito della vita familiare e privata, rientra a pieno titolo nel ripensamento dei nuovi lavori, ma anche nello sforzo di rigenerazione del lavoro tradizionale, come dimostrano le nuove linee di attività del welfare aziendale e delle forme più valide della sharing economy. È per tutti questi motivi che i colloqui di Cagliari hanno l’obbligo di fare luce in maniera chiara su questa importante transizione, e di proporre alla società e alle istituzioni una maggiore valorizzazione del lavoro di cura e di chi lo svolge attraverso adeguate politiche economiche, fiscali e sociali.

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