Ci sono davvero pochi dubbi: i milioni di tedeschi che si recheranno oggi alle urne per eleggere i 598 membri del Bundestag daranno alla cristiano democratica Angela Merkel il suo quarto mandato come cancelliera, così come è relativamente facile prevedere la non gloriosa affermazione della Spd e l’irruento ingresso nella Camera alta di Alternative für Deutschland, partito euroscettico e xenofobo che alle scorse elezioni prese solo il 4,3%, ma che oggi si attesterebbe – per lo meno nelle previsioni della vigilia – oltre il 10%. Merkel dunque vincerà, guadagnandosi una longevità politica quasi da record, nonostante nell’ultimo quadriennio abbia accumulato anche una serie di errori e infortuni politici che avrebbero potuto comprometterne il successo. Su tutti, la frettolosa uscita dal nucleare, la politica altalenante tra accoglienza generosa (e ben regolata) e patti respingenti (e onerosi) con la Turchia sui rifugiati siriani e iracheni, per finire con l’ambigua (ma come non comprenderla?) condiscenzenza nei confronti dell’industria automobilistica – si pensi soprattutto allo scandalo Volkswagen.
Vincerà, dunque, questa dama di ferro permeata di buon senso, capace di tenere testa a Vladimir Putin e a Donald Trump, di fare affari d’oro con la Cina e si sedere sopra un surplus commerciale tedesco che fa impallidire (e rodere d’invidia) il resto del mondo. Nondimeno, a dispetto della scontata affermazione elettorale già si profila per la Germania l’ennesimo governo di coalizione. Non è una novità, il Bundestag congeda un quadriennio all’insegna dell’alleanza (verrebbe da dire, alla francese, la cohabitation, ma basta e avanza il tedesco: Grosse Koalition, grande coalizione) fra Cdu-Csu e Spd, come nei precedenti quattro anni vi fu un governo cristianodemocratici-liberali. E qui sta il punto, utile anche per ragionare in altre sedi sui fatti di casa nostra. Il sistema elettorale tedesco è un proporzionale in cui i seggi tra i partiti sono distribuiti proporzionalmente al numero di voti ricevuti su base nazionale, con una soglia di sbarramento al 5%, che concede tuttavia all’elettore un doppio voto, uno per il singolo candidato nei 299 collegi uninominali in cui è diviso il territorio nazionale, l’altro come voto di lista assegnato al partito. In altri termini, in questo proporzionale corretto siamo assai lontani da quel maggioritario per molti anni e da molti elogiato come antidoto all’instabilità, che incorona la notte stessa delle elezioni il leader vincente e automaticamente gli conferisce il mandato di governo.
La Germania ha fatto tesoro di questo sistema e i governi di coalizione si susseguono. Tra vicini e, quando è necessario per il bene comune, tra (non troppo) lontani. Ed è un bene: se scorriamo la mappa politica del Vecchio Continente vediamo come i governi formati da un unico partito guadagnati con fantasiosi premi di maggioranza ed altre alchimie (fanno eccezione i casi della Turchia di Erdogan e dell’Ungheria di Orbán, ma qui possiamo ancora parlare di sistemi democratici?) rischiano di diventare una rarità, anzi, un anacronismo (lo stesso Macron guida un governo che è un mosaico di partiti nascosti sotto un’insegna vincente). Potremmo quasi affermare – e si fa strada ogni giorno di più questa convinzione – che è la coalizione ad essere ormai la normalità, non il suo contrario.
«Chi avrebbe mai pensato che i socialdemocratici della Spd e i cristianodemocratici della Cdu e della Csu avrebbero scoperto di avere tante cose in comune da presentare un unico programma approfondito per i prossimi quattro anni? Una grande coalizione che include i due maggiori partiti ci dà l’inaspettata opportunità di domandarci che cosa possiamo migliorare insieme senza ostacolarci gli uni con gli altri». Sono parole di Angela Merkel. Ma non le ha pronunciate oggi, bensì il 30 novembre del 2005 davanti al Bundestag, quando a 51 anni si apprestava a guidare il suo primo governo di coalizione. Una lezione per tutti. Sarà lei – insieme all’Italia, alla Spagna, alla Francia – a salvare l’Europa, a ricostruire quell’asse carolingio con Parigi dove la testa e il comando rimangono a Berlino e forse a rivitalizzare il patto fondativo a tre con Roma (se Roma sarà all’altezza, se non del coraggio, della concretezza e della visione di De Gasperi, almeno dei migliori anni della Prima Repubblica). Lei, che mai sfilerebbe davanti alla Porta di Brandeburgo sulle note dell’Inno alla gioia, ma che in fondo lo meriterebbe, molto più dell’esile e vanitoso Macron. Ma forse è anche così, con una normalità tranquilla e mai ostentata che si vincono le elezioni.