«Forza e coraggio, che dopo Aprile viene Maggio». Sono nato nel cuore della nostra Penisola e questo italianissimo proverbio (che suona meglio con l’accento delle mie parti) l’ho quasi sempre sentito ripetere tra lo scanzonato e l’ironico. Ma a volte anche con appassionata fiducia: per ricordarmi che non c’è mai ragione per lasciarsi abbattere e per darsi per vinti, e che lo scoramento – letteralmente il ritrovarsi senza cuore e, dunque, senza motivazioni ed energie – è possibile eppure non ha senso persino al tempo delle domande senza risposta e del «distanziamento fisico» dagli altri.
La pandemia, infatti, ci ha ricordato che fatiche e prove nella vita sono inevitabili, quasi come le incomprensioni e persino gli insulti, ma soprattutto come l’umano e naturale impulso a resistere, tenere la giusta direzione, a cominciare e a ricominciare tutte le volte che è necessario. Un impulso che si fa più saldo, sino a diventare lucida dedizione, quando possiamo sostenerlo attingendo alla grande riserva di bene rappresentata dalla vita di fede che, per noi cristiani, è anche vita comunitaria e sacramentale. Certo, inevitabili non sono i malanni che ci autoinfliggiamo usando stupidamente della nostra libertà e irresponsabilmente del potere dell’intelligenza e della scienza. Solo quelli generati dalla natura di cui siamo parte sono inevitabili, curabili ma inevitabili, proprio come la speranza, che è anche sentimento del tempo che passa e che viene sempre. Mese dopo mese, come insegna quell’antico proverbio. Stavolta, nella dura stagione del coronavirus, me lo sono sentito ripetere al telefono quasi con tenerezza. E lo ripeto qui con la stessa intenzione e, dunque, con lo stesso garbo. «Forza e coraggio…». Eccoci a Maggio, finalmente. Eccoci al mese della nostra prova, che è nulla senza la speranza. Eccoci al mese del coraggio, che è vano senza la saggezza. Eccoci al mese che viene dopo i febbraio, marzo e aprile del nostro scontento e della nostra sconfitta e nel quale dobbiamo provare a far maturare tutta un’altra storia, non solo a rincorrere la vecchia.
La fine dell’inverno e l’inizio della primavera 2020 hanno visto sbaragliate tante noncuranze e tante certezze arroganti, ma anche abitudini semplici e care, ma anche normalità benedette. Come quella del lavoro che, venerdì scorso, in una strana festa del Primo Maggio abbiamo rimpianto e progettato più che celebrato. E come quella della libertà di culto, e dunque delle Messe. La Chiesa – lo sappiamo – non ha mai smesso di celebrarle, ma da ieri abbiamo certezza che in questo Maggio più che mai dedicato alla preghiera, grazie all’intesa di massima sulle "modalità sicure" tra Governo e Cei, potremo tornare a parteciparvi. Saremo saggi e davvero coraggiosi se sapremo ripartire, con giudizio, dalla benedetta normalità, che ora forse amiamo semplicemente di più.