sabato 16 gennaio 2010
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Attenzione alla data, 17 gennaio 2010. Domani. Il giorno in cui, per la seconda volta, un Papa si recherà in visita al Tempio Maggiore di Roma. Giorno in cui coincidono la Giornata che, ogni gennaio, viene dedicata al dialogo tra cattolici ed ebrei, e la festività ebraica romana del Mo’ed di Piombo, che ricorda il forse unico atto veramente antisemita compiuto contro il Ghetto nella storia della Roma papalina. Una convergenza determinata dal calendario, certo. Ma che in qualche modo, se non tutto, diventa simbolo di quello che succederà domani. Spiegando molto del senso del ritorno di un Pontefice nella Sinagoga.Spiega, soprattutto, la lunghezza e la fatica di un processo di reciproco riconoscimento che dal Concilio Vaticano II, in quarant’anni, ha saputo ribaltare duemila anni di storia. Afferrando con coraggio i lembi di ferite profonde, di piaghe suppurate, per provare a ricomporne la trama smagliata. Dialogo eroico, in qualche misura, più ancora che coraggioso, spesso guardato con sospetto e contrastato dall’interno delle due stesse religioni che tornavano a guardarsi negli occhi. Ma che ha saputo progredire passo dopo passo, tra frenate e accelerazioni, nella convinzione profonda che era tempo di lasciare il passato al passato.Il Giovanni Paolo II che ventiquattro anni fa entra nella Sinagoga di Roma resterà un’icona immortale nel tempo. E, quel suo rivolgersi ai suoi ospiti quali «fratelli maggiori nella fede», un’espressione che è già parte della storia. Rappresenta il culmine di un’era, il segno che quel primo, tortuoso e a prima vista impossibile, tratto di strada percorso era stato fruttuoso, per aprirsi a un cammino ulteriore. Che con non meno fatica del precedente ha proseguito nella ricerca di ciò che unisce cristiani ed ebrei, delle cose da fare insieme, nella consapevolezza della necessità, in un mondo dai troppi dei, della testimonianza comune delle due religioni che credono nel Dio unico, Signore del cielo e della terra.Questo non ha significato né l’annullamento delle differenze, né la fine delle difficoltà, delle incomprensioni, degli attriti. Tanto più che il procedere su strade parallele da una parte del dialogo religioso, primario, e dall’altra di quello diplomatico con Israele – col primo ad aiutare non poco, indirettamente, il secondo – ha fatto troppo spesso confondere i due piani. Per scarsa o non corretta informazione, il più delle volte, ma spesso anche dolosamente: nell’enfatizzazione sistematica delle differenze (paradossalmente quasi ininfluenti, perché «sappiamo tutti, loro e noi, che alcune dureranno fino alla fine del tempo», ha detto l’altro giorno il cardinale Kasper), nella sottolineatura degli aspetti polemici, nel mescolare politica e religione.Nonostante tutto ciò, il dialogo è ancora andato avanti. E Benedetto XVI se n’è fatto carico fin dal suo primo giorno da Papa, con l’umiltà del servitore della vigna, e con sulle spalle il fardello ulteriore delle sue origini tedesche che, su una religione e su un popolo segnato dalla tragedia della Shoah, è davvero pesante. E dopo Auschwitz, dopo le Sinagoghe di Colonia e di New York, dopo la Terra Santa, e dopo nuove incomprensioni, nuove difficoltà, nuove polemiche, torna a quella che può in qualche modo considerarsi la radice del guardarsi in faccia delle due religioni dei figli dell’unico Dio, quel Tempio Maggiore che Giovanni XXIII benedisse facendo fermare la macchina sul lungotevere.I discorsi di domani saranno sezionati, frugati fin nelle virgole, analizzati al microscopio. Per vedere se Papa Ratzinger parlerà di Pio XII (e se lo farà, sarà col suo umile coraggio di sempre) e come, e se e come ne parlerà il Rabbino Di Segni. Se risuoneranno echi del caso Williamson, se ci sarà spazio per accenni polemici o prese di posizione. Col rischio, alla fine, di lasciarsi sfuggirsi la cosa più importante. L’unica fondamentale. Che il Papa ha risposto all’invito del Rabbino Capo di Roma, ed è tornato nella Sinagoga. Per dire a Roma, e a tutto il mondo, che il dialogo non si ferma, e non potrà fermarsi. Perché è una scelta irrevocabile. Perche cristiani ed ebrei sanno che è una testimonianza che devono al mondo, nel nome di Dio. E forse, al mondo dei tanti dei, è questa la cosa che dà più fastidio.
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