I ragazzini ucraini sfollati in questi mesi nelle nostre contrade – li osservo incantato mentre stanno con la testa china sul banco di scuola impegnati a imparare nomi e verbi – vogliono essere simili ai loro coetanei italiani: impugnano lo smartphone col quale comunicano utilizzando il traduttore automatico, scelgono bizzarre acconciature alla moda, indossano magliette sportive multicolori, quasi si travestono per camuffarsi e non farsi riconoscere come profughi quali a tutti gli effetti sono. Via da Kharkiv. Lontani da Mariupol. Alla larga da Odessa. Viva l’Europa! Abbasso il Mar Nero! Distanti mille miglia dalla morte, dalla violenza, dalla mancanza d’acqua, dalle case distrutte, dai missili che cadono improvvisi, squarciano i tetti, lacerano la carne e recidono ogni speranza.
È la potenza affascinante e incontenibile dell’adolescenza, il Gran Teatro della vita, un’erba nuova capace di ricrescere sempre, anche dove meno te lo aspetti, anzi soprattutto lì, non in mezzo al campo, bensì fra le pietre e le intercapedini. Andiamo avanti, mantenendo la massima velocità di crociera, lanciati gagliardi verso il futuro, senza voltarci indietro. Nello sguardo ansioso delle madri e delle nonne che premurose li accompagnano a fare l’iscrizione – quanto è difficile copiare sul registro i loro nomi derivati dal cirillico! – decifro invece l’ansia e la tensione di tutti noi, consapevoli che la guerra è sempre una tragedia da qualsiasi angolo la si consideri e trascina nel gorgo ogni contendente: chi perde, certo, ma non dovremmo mai dimenticarlo, anche chi pensa di poter vincere e, persino, di aver vinto.
Come fare a non capirlo? La pace rappresenta un gesto rivoluzionario perché intende sovvertire le leggi del mondo basate sui rapporti di forza che si stabiliscono fra le nazioni nel corso della storia: volerla continuare a predicare e praticare, nonostante l’evidenza incontrovertibile della natura ferina della specie a cui apparteniamo, significa nuotare controcorrente, sfidare la maggioranza, alzare la voce per gridare 'Basta così!' quando la furia esplode, come fece il Nazareno al Monte degli Ulivi, secondo il racconto immortale di Luca (22, 51), ordinando all’apostolo di trattenersi, nonostante il suo scopo fosse in apparenza sacrosanto in quanto lui stava difendendo il Maestro, e rimettere la spada nel fodero.
Ripetiamolo ancora: basta così. Vale a dire: stacchiamo la spina delle reciproche rivendicazioni, pronte a ricrescere, incontrollate, sul tessuto malato; interrompiamo la catena dell’odio, potenzialmente infinita; sospendiamo, almeno tatticamente, l’ostilità capace di accecarci; non cediamo al ricatto, per dirla con René Girard, del conflitto mimetico che scava un solco insanabile fra gli avversari rendendoli uguali uno all’altro nella protervia e nell’ipocrisia, soffocando qualsiasi distinzione.
Quando Mario Draghi è tornato da Washington, dopo aver parlato con Joe Biden, molti di noi hanno creduto di percepire un mutamento di rotta. Il presidente del Consiglio ha cambiato tono e accenti, nel solco indicato sin dall’inizio da papa Francesco, e in sintonia con un’auspicata lungimiranza continentale, rivolta a non esacerbare la condizione presente, pur sapendo che il varco diplomatico della trattativa internazionale resta molto stretto. Per rilanciare la pace e mettere fine allo scempio – solo chi lo sta patendo sulla propria pelle ne è davvero cosciente – bisogna saper andare oltre la materia del contendere, affermando innanzitutto le ragioni dell’uomo.
Un compito, quest’ultimo, un imperativo categorico, talmente radicale che non possiamo illuderci di poterlo semplicemente affidare ai responsabili politici, i quali sembrano avere le mani in gran parte legate dagli interessi economici e territoriali che sono chiamati a tutelare. C’è bisogno di un movimento d’opinione in grado di far emergere la volontà popolare dei Paesi coinvolti, ormai sempre più tesa verso il raggiungimento almeno di una tregua temporanea per scongiurare la catastrofe nucleare che metterebbe fine, come ben sappiamo, a questo stadio della civiltà umana.