Il colloquio ad Abu Dhabi tra il premier israeliano Naftali Bennet e la massima figura degli Emirati Arabi Uniti, il principe ereditario e ministro della Difesa Mohammed bin Zayed al-Nahyan (detto MbZ), è di quelli che vien facile definire storici.
Mai, infatti, un leader dello Stato ebraico aveva incontrato in via ufficiale le autorità emiratine, per di più con un’enfasi assai marcata («Siamo vicini e cugini», si è spinto a dire Bennett) su una sorta di destino comune che porterebbe in modo naturale a stringere i rapporti.
Il processo è in corso da tempo, almeno da quando i cosiddetti Accordi di Abramo, firmati nell’agosto del 2020 con il patrocinio dell’amministrazione Trump, hanno ufficializzato la collaborazione, e si potrebbe ormai dire l’alleanza, tra Israele e le potenze petrolifere del Golfo Persico, a partire proprio dagli Emirati. Come sempre il business si è incaricato di battere da subito le vie aperte dalla politica: l’interscambio commerciale tra Israele e gli Emirati nel 2021 ha raggiunto il valore di 500 milioni di dollari, più di tre volte di quanto sviluppato nel 2020. È ancora poco, ma dà l’idea di quanto potrebbe in futuro produrre l’interazione tra la tecnologia e l’ingegneria, agricola e no, di Israele e la ricchezza di materie prime e di riserve valutarie del Golfo.
Il viaggio di Bennett, però, ha anche altre sfumature, oggi forse più urgenti.
Sullo sfondo c’è l’allarme generale per l’andamento, a Vienna, dei colloqui sul nucleare tra Iran e Usa, ormai vicini allo stallo totale. L’Iran arricchisce l’uranio e non vuole smettere finché gli Usa non ritireranno le sanzioni decise (anche quelle da Trump) nel 2017 per tornare all’accordo siglato da Obama nel 2015. Gli Usa vogliono che cessi l’arricchimento prima di fare qualunque concessione. In Israele è cambiato il Governo, ma non l’idea che il regime di Teheran sia un pericolo mortale. Idea peraltro condivisa dai Paesi sunniti del Golfo.
È impossibile, quindi, che il tema non sia stato toccato durante l’incontro tra Bennet e il principe. Anche perché Bennett e il suo governo sono attivissimi su questo fronte. Pochi giorni fa il premier ha avuto un lungo colloquio telefonico con Anthony Blinken, il segretario di Stato Usa. A seguire, il capo del Mossad, David Barnea, è volato a Washington per illustrare agli americani le possibilità di intervento militare contro gli impianti nucleari iraniani in caso di rottura totale a Vienna. E per finire Benny Gantz, ministro della Difesa, ha avvertito gli alti gradi delle Forze armate di tenersi pronti all’azione.
Resta da capire se la Casa Bianca abbia intenzione di dare luce verde a un raid israeliano che potrebbe di nuovo incendiare il Medio Oriente, ma il quadro è chiaro. E l’appoggio dei Paesi del Golfo potrebbe essere, logisticamente e politicamente, molto importante. Gli Emirati, però, potrebbero avere un ruolo non secondario anche su un altro fronte cruciale per Israele, quello dell’eterno conflitto con i palestinesi. Qui la strada è sempre in salita, ancor più da quando Abu Mazen all’Onu, nel settembre scorso, ha dato a Israele un anno di tempo per ritirarsi da tutti i territori occupati. Un ultimatum che i palestinesi non possono in alcun modo imporre e che Israele, ovviamente, non si sogna di accettare. Sullo sfondo, però, si agita la questione della successione all’ormai ottantaseienne Abu Mazen. Nel marzo prossimo si terrà la conferenza generale di Al Fatah, che dovrà eleggere il Comitato Centrale, ovvero il massimo organo decisionale del partito. Gli Emirati c’entrano perché proprio ad Abu Dhabi, da ormai dieci anni, vive in esilio Mohammed Dahlan, considerato il leader dei 'riformisti' palestinesi, che bussa a tutte le porte (è stato anche a Mosca) per essere riammesso in Al Fatah e concorrere, quindi, alla successione. È chiaro che Dahlan darebbe un’altra impronta alle trattative con Israele e non ci sarebbe da stupirsi se Bennett e il suo Governo cercassero, insieme con interlocutori come il principe Mbz, un tempo tra i grandi donatori alla causa della Palestina e ora molto meno, di dare una discreta spinta al cambio della guardia in Al Fatah. Per parte sua Bennet, che deve l’incarico anche ai sei seggi del partito arabo Ra’am (il primo a entrare in una maggioranza di governo), ha varato una legge di bilancio che prevede forti investimenti nei quartieri arabi di Israele, finora negletti e abbandonati. Un atto di giustizia tardivo ma non meno importante, certo. E anche un messaggio ai palestinesi stremati dall’occupazione altrui e dall’inconcludenza di eterni leader e dichiarati 'amici': collaborare fa vivere meglio.