Studenti stranieri in una foto dell'archivio Ansa
Sarebbe non solo uno smacco per la politica, ma anche una disfatta per l’intero Paese, se non dovesse diventare legge quel diritto alla cittadinanza per i figli degli stranieri residenti che passa per la cultura. Perché significherebbe che hanno prevalso un campanilismo miope, una demagogia invelenita quanto ottusa, una xenofobia populista che fomenta l’odio. Vorrebbe dire allora arrendersi a chi ha ostacolato questo giustissimo provvedimento non già con argomenti ragionevoli, bensì solo alzando un polverone e ricorrendo allo strumento della paura.
È il caso di quanti hanno lasciato intendere che la legge non sia ben articolata, o hanno insinuato che l’appartenenza a una nazione possa essere acquisita sulla base di chissà quale recondito sentimento istillato miticamente solo alla nascita, oppure hanno sbraitato sostenendo che si tratterebbe di un invito a immigrare. Loro guadagneranno magari consensi e voti.
Ma chi pagherà il prezzo di questo comportamento irresponsabile? Anzitutto i figli di immigrati che sarebbero così vittime di un rifiuto esecrabile, di una esclusione che resterebbe una macchia incancellabile. Ma anche tutti i cittadini italiani, e più in particolare le giovani generazioni. Che senso avrebbe lasciare in un limbo senza diritti diciottenni che nei suoni e nei significati dell’italiano si riconoscono, che hanno familiarità con la cultura in cui sono cresciuti, che sono figli non solo della famiglia, ma anche della scuola che hanno frequentato?
Se non venissero accolti nella cittadinanza per loro sarebbe un evento traumatico. Come se qualcuno, dall’esterno, in modo autoritario e brutale, andasse d’un tratto a spezzare legami che hanno annodato e stretto gradualmente negli anni - con i coetanei, gli insegnanti, il mondo circostante. Con quale diritto? E a che pro? A chi converrebbe la presenza, nel Paese, di diciottenni che hanno subito questo rifiuto? Giovani che avrebbero desiderato far parte della comunità e ai quali è stato opposto un 'no' pretestuoso e immotivato, un 'no' che ha l’impronta evidente del razzismo?
Non è difficile immaginare quali nefaste ripercussioni ciò porterebbe con sé. Colpita sarebbe soprattutto l’università. Perché chi ha frequentato la scuola, tutelato da un permesso di soggiorno per motivi familiari, non avrebbe poi la possibilità di proseguire gli studi. Pur essendo meritevole, incontrerebbe enormi difficoltà burocratico-amministrative. La strada sarebbe sbarrata - a meno di non essere costretti a escamotage di ogni sorta, magari pagando di tasca propria i contributi di un impiego fittizio, per dimostrare di avere un lavoro, ottenere il permesso di soggiorno e poter studiare. Insomma se questa legge naufragasse, centinaia di migliaia di giovani, sui quali il Paese ha già investito garantendo loro un’istruzione, estromessi dalla comunità, privi di cittadinanza, sarebbero ostacolati e osteggiati nel processo di formazione. Con grave danno di tutti. Questo sarebbe imperdonabile.
Chi conosce le aule universitarie sa bene che gli argomenti contro lo ius culturae sono anacronistici. Per i ragazzi è ovvio che il compagno di banco non sia della sua città, né del suo Paese. Manifestamente diversi, siedono l’uno accanto all’altro, discutono, dialogano, scherzano tra loro, più affiatati e solidali di quanto non si possa immaginare all’esterno. Offrono uno spaccato dell’Italia che verrà, più variegata, poliedrica e aperta.
Che i cinque o sei senatori, che si dice manchino all’appello, pensino soprattutto a questa Italia del futuro. L’ostinazione genetico-nazionalistica è una via senza uscita. Da tempo, d’altronde, lo Stato non è più una comunità etnica omogenea. Perciò la cittadinanza politica non ha bisogno di radicarsi in un’identità nazionale. Né si può intendere la cultura come proprietà identitaria, come un retaggio monolitico e inerte. Quel che al nuovo cittadino si chiede è la condivisione della cultura politica democratica.
*Ordinaria di Filosofia teoretica alla Sapienza-Università di Roma