La prima domanda che tutti si sono posti, di fronte agli annunci e contro annunci che hanno segnato l’inasprimento dei rapporti tra Washington e Mosca, è certo stata: ma quanti sono i diplomatici e gli impiegati dell’ambasciata americana in Russia? Adesso lo sappiamo. Sono 1.210. O per meglio dire, erano tanti prima che Vladimir Putin decidesse di rispedirne a casa 755, riducendoli a 455, ovvero tanti quanti sono quelli dell’ambasciata russa negli Usa. La più massiccia espulsione nella storia della diplomazia, il mezzo scelto dal Cremlino per ribattere alla legge che il Congresso Usa ha approvato quasi all’unanimità (solo 2 no contro 98 sì al Senato e solo 3 no contro 419 sì alla Camera) per inasprire le sanzioni economiche che furono decise nel 2014 dopo la riannessione della Crimea da parte della Russia.
Da questo gioco un po’ infantile di numeri e dispetti reciproci bisogna partire non per sminuire la portata della crisi internazionale ma per sottolineare che in essa, come in molti altri aspetti delle relazioni tra potenze, c’è un tasso di teatralità che è parte integrante della questione politica. Putin sa benissimo che in un’eventuale battaglia di sanzioni la Russia può sì e no fare il solletico agli Stati Uniti, sia dal punto di vista politico sia da quello economico. Il campo dove la Russia può farsi valere, e la strategia che la avvantaggia, sono ben altri e stanno nei deserti della Siria e nei villaggi diroccati del Donbass. Per questo Putin spettacolarizza la propria reazione, fa la faccia feroce e manda via un sacco di americani che, per essere onesti, contano poco o niente. L’ambasciata Usa continuerà a funzionare, le spie a spiare, i militari a sorvegliare, gli addetti ai visti a timbrare.
Ma c’è un bel po’ di show anche sul lato americano della questione. Il Congresso ha votato con inedito spirito bipartisan per due ragioni. La prima è che si tratta di temi ai quali gli elettori Usa sono abituati. La nuova legge è intitolata "Contro le attività di destabilizzazione dell’Iran" e se la prende appunto con Iran, Russia e Corea del Nord. Vecchi e nuovi spauracchi, tutti insieme appassionatamente. Un appello che funziona sia rispetto agli spiriti isolazionisti dell’America profonda sia rispetto all’anima progressista o addirittura liberal prima incarnata da Barack Obama. Un voto che, dal punto di vista della politica interna, conveniva a tutti e che infatti è andato via liscio come l’olio. Anche a costo di pagarlo a caro prezzo, perché divide l’Unione Europea, finora perfettamente allineata agli Usa nel decidere sanzioni contro la Russia.
La nuova legge americana punta soprattutto a colpire le aziende che collaborano allo sviluppo del settore energetico russo. Ciò mette a rischio non solo il progetto North Stream 2, il gasdotto che dovrà collegare Russia e Germania, ma anche molte altre collaborazioni tra aziende europee e russe del settore. Certo, Polonia e Paesi baltici applaudono. Ma Francia e Germania hanno subito mandato segnali forti di protesta, e anche l’Italia avrà qualcosa da dire in proposito.
La seconda ragione dietro il voto del Congresso è la volontà, ormai più che esplicita, di chiudere il presidente Trump in un recinto in cui la sua capacità decisionale risulti molto limitata. Un intento che è ancor più dei repubblicani che dei democratici, come si è notato dal recente caso dell’Obamacare, la riforma sanitaria fatta approvare da Obama nel 2010, che Trump vuole abolire e che è stata salvata, al Senato, dal dissenso mirato di due senatori appunto repubblicani.
Alla fin fine, quindi, i due giganti si tirano pugni avvolti nell’ovatta. L’Urss, nei 79 anni della sua storia, fu quasi sempre sotto sanzioni, anche quando combatteva Hitler alleata agli americani. E non furono certo quelle ad abbatterla. Qualcosa di simile è successo anche alla Russia post-sovietica. Dal canto suo la Russia, come si diceva, non può certo sanzionare gli Usa.
Teatrino a parte, però, la relazione tra i due Paesi oggi è pessima e deve preoccuparci. Perché fin troppo spesso la sua portata mondiale è sacrificata dagli uni e dagli altri a modeste ragioni di bottega, cosa che giustamente inquieta il resto del mondo. E perché laddove gli interessi dei due non si scontrano in prima persona ma per procura, ovvero in casa d’altri, come in Ucraina e in Siria, a pagarne il prezzo sono soprattutto le popolazioni, crescono le vittime e le distruzioni, e spesso muore anche la speranza.