Il 18 dicembre, Giornata mondiale dei diritti dei migranti istituita dall’Onu, cade quest’anno in un frangente politico in cui la tensione sul tema appare un po’ raffreddata. Questo rende possibile cercare di discuterne in un contesto meno condizionato dalle emozioni e in un modo più attento ai dati del fenomeno.
I migranti internazionali nel mondo sono attualmente stimati in 272 milioni, tra cui circa 24 milioni rientrano nella categoria dei rifugiati oltre confine e dei richiedenti asilo. Rappresentano il 3,6% della popolazione mondiale. Sono cresciuti (erano 220 milioni nel 2010), ma non in modo esorbitante, tenendo anche conto del fatto che è aumentata nello stesso tempo la popolazione mondiale. Il fenomeno è rilevante, ma non sconvolgente. Oltre il 96% degli esseri umani rimangono sedentari, o al massimo circolano all’interno del proprio Paese. I "tutti" che non potremmo ospitare, secondo una ricorrente polemica, semplicemente non esistono. Non si spostano da casa loro.
In secondo luogo, le direttrici dei flussi migratori sono molteplici. Più di quattro migranti su dieci si sono diretti verso Paesi in via di sviluppo, e nel caso dei rifugiati il valore è doppio: più di otto su dieci. Tra i migranti internazionali che si sono insediati in Paesi sviluppati, quasi quattro su dieci provengono da altri Paesi sviluppati, che a loro volta esportano 14 milioni di emigranti verso i Paesi in via di sviluppo. Dunque le migrazioni non si riducono a un flusso univoco dal Sud al Nord del mondo, non si identificano con le carovane che risalgono l’America centrale dirette verso gli Stati Uniti o con gli africani che attraversano il deserto e il mar Mediterraneo diretti verso l’Europa.
In terzo luogo i flussi contemporanei, malgrado le apparenze, sono sempre più selettivi. È contraddetta dai fatti la retorica dell’invasione, ma è imprecisa anche l’idea delle chiusure assolute e delle fortezze impenetrabili. Anzitutto, non solo nell’ambito dell’Unione Europea, ma tra i Paesi sviluppati la circolazione delle persone è relativamente agevole. Inoltre, alcuni tipi di migranti circolano più liberamente del passato: gli investitori, i lavoratori altamente qualificati, in una certa misura anche gli studenti.
Merita una menzione particolare il personale sanitario: in questo caso il Nord del mondo dipende sempre di più, in varie forme, dalle risorse del Sud e dell’Est del mondo, ossia da medici, infermieri e personale ausiliario importato da Paesi meno sviluppati, soprattutto anglofoni, con le Filippine al primo posto. Esiste nel mondo un fenomeno imponente di care drain, un drenaggio di risorse di cura che destabilizza sistematicamente i sistemi sanitari dei Paesi "fornitori".
Anche in Italia lavorano 19mila medici stranieri, secondo l’associazione che li rappresenta. In Lombardia un’infermiera su tre viene dall’estero. Ma soprattutto abbiamo 600700mila immigrate che assistono anziani italiani a domicilio: le assistenti familiari definite 'badanti'. Le chiusure più rigide riguardano invece i migranti più deboli: le persone in cerca di asilo, i lavoratori poco qualificati, i cittadini dei Paesi a basso reddito, i migranti in condizione irregolare, anche se residenti da anni sul territorio.
Le maglie si stanno stringendo nel mondo sviluppato anche nei confronti dei ricongiungimenti familiari, con richieste come la conoscenza della lingua del Paese ricevente, i test del Dna per i figli, l’innalzamento dell’età minima per gli sposi. Negli Stati Uniti queste tendenze sono state definite da Alejandro Portes «la fine della compassione», a sottolineare il progressivo abbandono dell’attenzione ai diritti umani nel trattamento di migranti e profughi.
Governare il fenomeno è una necessità. Nessun Paese può riuscirci da solo. Tre criteri dovrebbero imporsi: concertazione, distinzione, responsabilità. Concertazione significa dare corso ai due Global Compact, su immigrazione e asilo (per l’Italia, anzitutto, significa firmarli), e tradurli in regole condivise. Distinzione vuol dire ragionare su categorie specifiche, non sull’immigrazione in generale: domandarsi per esempio di quante lavoratrici le nostre famiglie avrebbero bisogno, e come accoglierle regolarmente. Responsabilità implica onorare le convenzioni internazionali, sull’asilo come sui minori, ripristinando i diritti umani come uno dei principi-guida delle politiche migratorie: non l’unico, ma nemmeno il minore e il più elastico.