«Il domani non muore mai» recita il titolo di un film di James Bond. E così la geopolitica. Per quanto pressoché scomparse dai nostri radar – concentrati come siamo sull’emergenza sanitaria ed economica, e focalizzati sul dibattito di quale livello di solidarietà riusciranno, proprio oggi, a esprimere gli Stati membri dell’Unione Europea – le contese internazionali non sono per incanto svanite. Al contrario, gli effetti sul sistema internazionale e sugli equilibri geopolitici di questa pandemia saranno forti e duraturi e rischiano di essere aggravati dalla “distrazione”.
Sono oggi identificabili due livelli su cui il Covid–19 sta agendo rispetto agli equilibri politici globali: uno macro, più importante e sistemico e dalle conseguenze di lunga durata, per quanto difficili da scorgere con chiarezza; vi è poi un secondo livello più contingente – per così dire – di piccola bottega, ma non per questo da trascurare. È infatti evidente come, negli scenari meno colpiti dal virus e che per ironia della sorte sono quasi sempre quelli geopoliticamente più instabili, tutta una serie di attori stiano approfittando dell’emergenza che ha spinto l’Occidente a ripiegarsi su se stesso per agire in modo più spregiudicato. Lo vediamo in Libia, per noi lo scenario principale fra le tante crisi del Medio Oriente: lì, il governo di al–Sarraj – rinforzato dai continui aiuti militari della Turchia, che ha inviato anche migliaia di jihadisti spostati dalla Siria – ha colto importanti successi militari contro il generale Haftar, che da un anno cerca inutilmente di conquistare Tripoli. Ora, detto brutalmente, la sconfitta del generale, certo non amico dell’Italia, non può che essere considerata una buona notizia per gli interessi nazionali. Ma non lo è se si accompagna alla nostra evidente perdita di influenza politica su al–Sarraj, che a lungo abbiamo difeso politicamente e diplomaticamente, e che ora guarda più ad Ankara, dato che Erdogan non si è fatto problemi ad appoggiarlo militarmente.
E in movimento sono anche altre aree di crisi, dalla Siria con i continui combattimenti su Idlib, l’ultima roccaforte salafita–jihadista che Assad vuole domare, allo Yemen stremato da anni di guerra civile e di bombardamenti sauditi, all’Iraq da troppo tempo privo di un governo, all’Iran, piagato dalla pandemia e dalla crisi economica da sanzioni, e proprio per questo iper–reattivo e potenzialmente pronto a mosse estreme. Per quanto giustamente le nostre priorità appaiano altre, non possiamo volgere completamente lo sguardo da quelle contese. Perché rischiamo di trovarci, una volta emersi dall’emergenza, con una regione mediterranea sempre più influenzata da attori a noi esterni, e non necessariamente benevoli.
Proprio le vicende libiche ci dimostrano come sia difficile instaurare relazioni durature e rafforzare la propria capacità di influenza: un processo lento nella costruzione, ma estremamente rapido nella perdita di peso politico. Qualcosa che l’Italia, che continuerà a essere in prima linea per la propria posizione geografica dinanzi alle molte crisi mediorientali, deve cercare di evitare.
Eppure è il primo livello che è stato citato, quello del mutamento globale e sistemico, a cui dovremmo dedicare le maggiori energie e attenzioni. Perché non vi è dubbio che lo sconvolgimento di questi mesi avrà effetti di lungo periodo sull’assetto politico, economico–commerciale e diplomatico di tutto il pianeta. Stati Uniti d’America e Cina si fronteggiano più che mai e mostrano di non smaniare per la crescita di ruolo di altri soggetti forti, come è e potrebbe essere l’Europa comunitaria, oggi però “nano politico”.
Si è parlato, spesso frettolosamente, di tramonto della globalizzazione, di regionalizzazione, di ritorno a un nazionalismo che scuoterà alleanze e unioni sovranazionali. Storicamente, sono proprio le fasi di grandi mutamenti a offrire opportunità per chi le sa cogliere e sventure a chi rimane inerte. Ma l’aspetto nuovo, per quanto difficile da cogliere, è che al di là di questa visione “a somma zero”, dove ci saranno potenze che guadagneranno e altre che perderanno peso e influenza, il sistema internazionale ha la possibilità di pensare in modo diverso ai propri meccanismi di funzionamento. Per ragionare in un’ottica che riduca le storture politiche, finanziarie e sistemiche a vantaggio di tutti. Non è solo l’Europa che è a un bivio cruciale: quello fra crescita solidale o rischio di disintegrazione. È tutto il sistema globale che può pensare di migliorare se stesso. Difficile che lo faccia, ovvio. Ma credere che un cambiamento sia possibile è il primo passo per attuarlo.