Il dibattito relativo alla delega fiscale sulla struttura dell’Irpef, mediante la riduzione e la rimodulazione delle aliquote, e su altre misure che vanno dalla revisione della tassazione d’impresa all’Iva, dal graduale superamento dell’Irap alla razionalizzazione di una serie di imposte, invita a ragionare sulla giustizia contributiva. Si può farlo senza entrare in tecnicismi, ma valutando alcuni princìpi di ordine generale che – a parere di chi scrive – dovrebbero essere tenuti in considerazione dal legislatore affinché l’imposta possa rappresentare ed essere percepita dai cittadini come strumento di incivilimento e di giustizia sociale e non come leva nelle mani di un potere arbitrario e predatorio.
In un modello di economia sociale di mercato, al mercato spetta il compito, certo non esclusivo, di rendere possibile lo sviluppo. In tal senso, il fisco è concepito in modo funzionale; in breve, è il sistema dei prezzi dei servizi che l’operatore pubblico offre agli individui, alle famiglie e alle imprese. Sicché, una costituzione fiscale adeguata dovrà tutelare i più bisognosi, favorire l’inclusione, premiare chi risparmia e coloro che con le loro attività aumentano la produttività del lavoro, nonché chi rischia innovando. Qui troviamo sancito uno dei princìpi sui quali si fondano i moderni sistemi liberaldemocratici: l’uguaglianza e la generalità del dovere tributario; saranno le rivoluzioni liberali della seconda metà del XVIII secolo a esigere la cessazione dei privilegi fiscali nei confronti dei nobili, del clero e dei militari di alto grado. Meno esplicito nella nostra Costituzione è il secondo principio aureo relativo alla politica fiscale: che l’imposta sia conforme al mercato e, quindi, rispetti i diritti di proprietà e di iniziativa su cui esso si regge.
La Costituzione italiana, nell’articolo 53, primo comma, fa riferimento a un piuttosto elastico principio di «capacità contributiva» e, immediatamente dopo, sancisce che il sistema tributario è informato a «criteri di progressività». L’ipotesi di una riduzione del numero delle aliquote, finanche l’adozione della flat tax, o tassa piatta, corredata da un sistema di detrazioni, non implica necessariamente la rinuncia del criterio della progressività, sebbene esso possa perdere i caratteri di semplicità e di certezza, elementi alla base di una qualsiasi civiltà fiscale, e produrre quella che Francesco Forte chiamava «progressività incomprensibile».
Secondo un approccio cooperativo, scriveva Forte, le imposte sono «il prezzo che il cittadino paga, come [appunto] in una cooperativa, per i beni che egli decide di produrre tramite l’operatore pubblico, per la soddisfazione dei propri bisogni, che non ritiene possibile o conveniente soddisfare mediante il mercato». Questi beni sono generalmente considerati di «natura collettiva» o «meritoria»; quei beni, in pratica, per la produzione dei quali si ritiene che il mercato sai meno adatto dell’operatore pubblico.
Ciò significa che il cittadino-contribuente gestisce le spese pubbliche al pari di un individuo che partecipa a una cooperativa di produzione di beni e servizi. In questa cooperativa, il cittadino è simultaneamente contitolare e consumatore a titolo paritario. In tale situazione ideale, seguendo la linea che va da Antonio De Viti de Marco a Luigi Einaudi, fino a Forte, l’equilibrio si raggiungerebbe nel punto d’incontro fra la curva di domanda di beni e servizi che i cittadini-contribuenti ritengono di dover affidare all’operatore pubblico e la curva dei costi per la produzione dei suddetti beni e servizi.
Tale scelta volontaria si giustifica in forza del grado di utilità che il singolo cittadino ritiene di procurarsi sulla base del cosiddetto «voto capitario». Diversamente, saremmo di fronte a ciò che Einaudi chiamava «imposta grandine» ovvero «imposte taglia» e che il Griziotti, maestro di Ezio Vanoni, considerava «imposte pubbliche irrazionali» o «prive di causa». Ecco, allora, che l’indispensabile indicazione di un limite del deficit pubblico comporta necessariamente un margine alle spese da parte dell’ente che determina il livello fiscale. Di conseguenza, la quantità e la qualità della spesa finiscono per interessare direttamente i singoli, le famiglie e le imprese, i quali altro non sono che i terminali di quella spesa per la quale pagano le imposte. Si comprende come il disequilibrio tra spese ed imposte, qualora fosse causato da spese improduttive, cattiva amministrazione o corruzione, rappresenti la prima ragione della mancata crescita economica e la fondamentale causa dell’impossibilità da parte dell’ente pubblico di offrire servizi adeguati rispetto al carico fiscale, dunque, fonte di ingiustizia sociale.
Superato un certo limite, quando la persona non è più padrona delle proprie scelte, l’imposta non è percepita più come etica, ma come predatoria. In questo caso, l’imposizione fiscale non è lo strumento di cui si dota uno Stato democratico in un’economia sociale di mercato per conseguire quegli obiettivi che risultano proibitivi all’azione dei singoli, bensì un potenziale strumento di asservimento ai desiderata e agli interessi della classe politica di natura estrattiva. Ancor prima che dal numero delle aliquote e dal riordino delle imposte, la qualità di un qualsiasi regime fiscale dipende dalla qualità inclusiva dell’azione politica, rispetto alla quale non sono estranee le matrici culturali. La Dottrina Sociale della Chiesa, pur non determinando ovviamente proposte di riforma tributaria, è in grado di offrire un chiaro riferimento antropologico. I princìpi di solidarietà, di sussidiarietà e di poliarchia rappresentano i cardini empirici di tale matrice culturale.
Libertà e giustizia economica vivono e muoiono insieme. La riduzione delle ineguaglianze, in una società libera, è finalità chiaramente espressa dalla vitalità di non pochi corpi intermedi e in questa partita lo Stato gioca un ruolo sussidiario e concorrente (art. 114 Cost.); per dirla con le parole di Luigi Sturzo, lo Stato è «un nome astratto atto a indicare l’organizzazione della pubblica amministrazione ». Allo Stato spetta il compito di vigilare affinché chi oggi versa nel bisogno venga sostenuto in modo che, in forza dell’aiuto ricevuto, domani possa essere a sua volta attivo protagonista della solidarietà civile, dal momento che lì dove c’è miseria, la libertà non ha cittadinanza e dove la libertà non può esprimersi, la miseria non trova ostacoli.