Dopo la guerra del Covid – occhio, non è ancora finita – la sensazione diffusa è che siamo dinanzi a un 'mondo nuovo'. Intorpidito. Anche il popolo degli stadi si sta lentamente risvegliando dal lungo letargo e dall’assenza forzata dalle gradinate. E ora il tifoso, riaffacciandosi dal seggiolino vista campo, ha la sensazione di assistere a un debutto permanente. Il calcio, nonostante i contagi e i diffusi focolai da spogliatoio, non si è praticamente mai fermato. Ma molte cose sono cambiate e non sappiamo ancora in che misura. Lo scopriremo solo vedendo (alla tv).
Sappiamo che si è giocato, vinto e perso, sempre a porte chiuse con tribune desolatamente deserte. Ma stasera, con gli Europei 2020, slittati di un anno per la pandemia (come le Olimpiadi di Tokyo) l’Olimpico di Roma riaprirà per il 25% della sua capienza (16mila fortunati). Una lieve onda azzurra sotto il cielo della Grande Bellezza. Piccoli segnali di normalità che vengono prima della partita inaugurale tra la Giovine Italia di Roberto Mancini e la Turchia che s’inchina al sultano Erdogan. Il quarto uomo donna di Italia-Turchia, l’arbitro francese Stephanie Frappart è 'dedicato' al grande capo turco. La ex dittatura calcistica che si muoveva sull’asse Uefa-Fifa – nelle eminenze grige degli ex gerarchi Platini&Blatter – ha lasciato in eredità questo primo Europeo itinerante. Un altro debutto. Si giocherà non in una sola sede, o al massimo in abbinata, ma in 11 stadi di altrettanti Paesi. Numero simbolico perché almeno la tradizione è ancora salva: in campo si sfidano ancora 11 contro 11. Da Roma ci si trasferisce a Baku, poi Amsterdam, Copenaghen, San Pietroburgo, Bucarest, Budapest, Siviglia, Monaco di Baviera, Glasgow e infine Londra. A Wembley il privilegio di ospitare le semifinali e la finalissima dell’11 luglio.
Gli inglesi ex Ue, ora Brexit, primi abbandonati e, poi, primi immunizzati di massa del Vecchio Continente, si erano offerti per organizzare l’intera kermesse calcistica, e quindi non sorprende che il clou della sagra del football europeo si consumerà proprio a Londra. In un tempo così incerto, già sapere che il calcio d’inizio sarà nella Città Eterna e il triplice fischio si udirà nella Capitale di Sua Maestà Britannica è già qualcosa. Che poi l’Italia vada o meno fino in fondo alla competizione, questo è tutto da vedere.
I precedenti parlano di un solo successo in dieci partecipazioni, Azzurri campioni d’Europa nel lontanissimo 1968, grazie anche alla 'monetina' (il sorteggio con aiutino della dea bendata) che ci portò alla vittoria, a Roma, contro la Jugoslavia. Poi tante lotterie dei rigori perse d’un soffio e due finali sfumate, una al 'goldengol' (allora al debutto) nel 2000 contro i cugini di Francia e infine il poker rifilatoci dalle Furie Rosse di Spagna. Era il 2012, Europei di Polonia-Ucraina, neppure un decennio fa, ma sembra davvero passato un secolo. Il pallone viaggia alla velocità della luce delle telecamere e nelle ultime due stagioni è diventato sempre più digitale. Le notti magiche inseguendo un gol, sembrano più corte e più fredde, e anche le partite, come la scuola e il lavoro, l’abbiamo vissuto o subìto 'a distanza'. Vorremmo tornare alle innocenti evasioni dal vivo e magari vivere un sogno d’inizio estate provando sulla nostra pelle tricolore quelle calde emozioni che ci riportino alla sbornia collettiva dei Mondiali del 2006. Rivincere sarebbe tornare indietro a un tempo più umano e più vero. Ci darebbe la forza di guardare al 'mondo nuovo', che ci aspetta, con lo stesso coraggio sbarazzino che l’ex baby prodigio Mancini ha saputo trasmettere ai suoi ragazzi.
Potere del calcio, da sempre, è quello di unire e compattare un Paese che invece, come ormai tutto il resto dell’invecchiata Europa, dà la sensazione di uno sfibramento globale e di essere sempre lì, sull’orlo del precipizio. In questo tempo ma-lato, tornano alla mente le parole di Stefano Borgonovo, ex azzurro, morto a 49 anni a causa del 'Morbo del pallone' (la Sla - Sclerosi laterale amiotrofica che ha ucciso almeno 60 calciatori italiani). Nei giorni in cui era inchiodato al letto a guardare alla tv le partite della Nazionale disse nostalgico: «Io, se potessi, scenderei in campo adesso, su un prato o all’oratorio, perché io amo il calcio!». Ecco: amare il calcio come lo amava Borgonovo, amare questa Italia del pallone con gli occhi ingenui del ragazzino dell’oratorio che 'vive' in tutti noi. Forse potrebbe essere questo il debutto di una nuova identità nazionale.