Fra le memorie di un centenario - da ricordare per la sua inquietante potenziale 'attualità' - vi è, in questo anno appena iniziato, un non gradevole evento, che pure merita di essere ricordato per la lunga e nefasta incidenza che ha avuta sulla storia del nostro Paese, e cioè la «marcia su Roma» e il conseguente inizio di quella che sarebbe stata una lunga dittatura. È possibile che pattuglie di nostalgici del defunto regime si apprestino a celebrarne i 'fasti'; ma per ogni autentico democratico quel 1922 merita di essere ricordato, se non altro, per fare tesoro di un prezioso, anche se drammatico, insegnamento della storia. Si potrebbe pensare che, dopo oltre 75 anni di vita democratica, quanto è avvenuto nel 1922 sia soltanto una lontana memoria; ma non è così: sappiamo che nessuna democrazia è mai acquisita definitivamente, ma va ogni giorno difesa da quanti, apertamente o surrettiziamente, intendono (s)travolgerla. Ecco perché non è fuori luogo, a un secolo di distanza, domandarsi perché il fascismo riuscì allora ad affermarsi e perché questo rischio di stravolgimento del sistema democratico è ancora di fronte a noi, sia pure in un contesto profondamente mutato. Come l’abbondante bibliografia su 'come il fascismo divenne una dittatura' ha posto in evidenza, due furono le cause fondamentali dell’affermarsi del regime: i profondi ed apparentemente insolubili contrasti tra le forze democratiche e l’ignavia, se non l’aperto sostegno offerto al nascente regime dalla monarchia, nonché da parte di componenti non marginali delle élite di allora che si erano illuse di potere 'superare' ed alla fine 'governare' il fascismo.
In un contesto profondamente mutato, sono oggi riscontrabili nella società italiana due fenomeni che non possono non richiamare la situazione del 1922. Il primo dato è rappresentato dalla fuga dalla politica messa chiaramente in evidenza dal crollo della partecipazione al voto nelle ultime tornate elettorali. Oltre la metà degli italiani ha ritenuto che la politica non fosse 'cosa loro'. E nessuno garantisce che questa amorfa massa di astenuti non guardi con simpatia a un nuovo 'uomo forte' di turno. Il secondo dato è rappresentato - oggi come nel 1922 - dalla forte, e talora furiosa, litigiosità di quanti dovrebbero promuovere e sostenere le istituzioni democratiche. Frequenti crisi di governo, durissime contrapposizioni nelle aule del Parlamento e nelle piazze, perdita del senso del 'bene comune' in nome di una concezione di partito autoreferenziale e aspramente polemica nei confronti di coloro che sono ormai non più i leali concorrenti a una legittima gestione del potere ma quasi dei mortali nemici… Molte vergognose risse del non felice anno 2021 ricordano il clima del 1922. E un po’ anche l’incipit del 2022, con l’incapacità di eleggere senza bracci di ferro il nuovo Presidente della Repubblica nonostante l’eccezionale esistenza di un’amplissima maggioranza parlamentare e di governo.
Queste riflessioni potranno essere da qualcuno, e forse da molti, ritenute lontane dalla realtà: ma un’attenta riflessione dell’attuale 'stato di salute' della democrazia italiana dovrebbe inquietare coloro che intendono tenere alta la guardia contro le ricorrenti minacce autoritarie: parziali e limitate oggi (e lo sembravano anche ieri, nel 1922) ma non per questo meno pericolose. Il tasso di litigiosità all’interno del Parlamento ha raggiunto livelli inquietanti e ha portato al progressivo logoramento di coalizioni sempre più sfilacciate e di continuo sottoposte a umilianti ricatti. Come avvenne, appunto nel 1922. Nessuna 'sindrome di Cassandra' , dunque ma un forte invito a ripensare alla politica a un livello che non può continuare a lungo a essere quello che l’anno 2021 ha conosciuto. È tempo di voltare pagina, se non si vuole ricreare il clima di litigiosità e di reciproche demonizzazioni che ha rappresentato allora (e oggi?) il 'brodo di cultura' del fascismo.