Tra le tante lapidi a vittime di mafia e terrorismo che punteggiano la storia della nostra Repubblica, ve ne sono alcune che più colpiscono perché riguardano uomini che videro la morte venir loro incontro e, ciononostante, non mutarono la loro condotta. Penso all’avvocato Giorgio Ambrosoli che, avendo ricevuto numerose concrete minacce di morte, rifiuta ogni possibile piccola compromissione e tenacemente si oppone al «progetto di sistemazione della Banca Privata Italiana». A Fulvio Croce, avvocato civilista torinese che a settantacinque anni accetta l’ufficio di difensore dei brigatisti rossi i quali, per questo, lo avevano «condannato a morte» e lo assassineranno sotto il suo studio.
Al magistrato Rosario Livatino, che chiede che proprio a lui venga affidata una pericolosa indagine di mafia perché è «l’unico tra i sostituti procuratori a non avere famiglia». Alle ultime settimane di vita di Paolo Borsellino e di Marco Biagi. A don Pino Puglisi, assassinato davanti casa, nel quartiere Brancaccio di Palermo, dove cercava di togliere linfa vitale alla mafia, educando i ragazzi; e dove viveva senza alcuna protezione. Carlo Casalegno apparteneva a questa cerchia di cittadini esemplari: che ogni giorno svolgono il loro lavoro con coscienza; che vivono spesso appartati, ignorando le luci della scena. E poi, a volte, all’improvviso, di fronte a una scelta drammatica, non cercata ma neppure elusa, passano, senza distacco, dalle loro vite tranquille e ordinate all’eroismo e alla tragedia. Casalegno è del 1916. Laureato in Legge, appassionato di Cavour e aperto alla cultura europea, nel 1942 partecipa alla costituzione del Partito d’Azione a Torino. Collabora al quotidiano 'Italia libera' e poi a 'GL'. Nel 1947 entra alla 'Stampa'. Nel 1968 ne diventa vicedirettore.
Ai tempi della direzione di Alberto Ronchey, nel 1969, inizia una sua rubrica che titola 'Il nostro Stato'. C’è, in quel titolo, l’essenza dell’uomo Casalegno: l’idea che lo Stato democratico, conquistato dalla generazione della Resistenza, va costruito e migliorato con il lavoro tenace e paziente di tutti i giorni. La sua visione è precisa: forte accentuazione delle autonomie locali, che spezzino «le strutture arcaiche del nostro Stato napoleonico», ma salvaguardino e anzi rafforzino l’unità nazionale: «Il Settentrione non troverebbe una scorciatoia verso il rilancio in un isolamento egoistico. La lotta della Padania contro la Borbonia non servirebbe né all’una né all’altra parte», scrive nel 1975, quattordici anni prima della nascita della Lega. Quando scoppia il ’68, Casalegno è molto interessato a capire quello che sta succedendo nelle Università. I suoi editoriali sono ispirati all’idea di un attento dialogo con quanti reclamano cambiamenti della società.
Ma in nessun momento egli indulge in comodi cedimenti. Nel 1969, nel pieno delle lotte studentesche e del fenomeno del '18 politico', scrive un impegnato editoriale che tesse le lodi del merito: «Quest’ondata di proteste ci appare inquietante per lo stato d’animo da cui nasce: il rifiuto del principio stesso di prova. Si tende sempre di più a vedere l’indulgenza come un obbligo, la promozione come un diritto; a negare la validità dell’esame, a respingere i criteri di selezione». Questo rigore si accentua con l’insorgere del terrorismo. Nei suoi editoriali Casalegno è inflessibile nell’indicare la necessità di tagliare le complicità e le radici della lotta armata.
E insiste sulla necessità di cogliere sempre la linea di distinzione tra espressione di un’opinione, che per quanto estremista va comunque salvaguardata, e la vera apologia di reato, che invece va costantemente perseguita. Casalegno non partecipa mai, come altri giornalisti, a quella che Giorgio Bocca – parlando di se stesso, anni dopo, con cruda onestà intellettuale – chiamerà la «partita dell’astuzia e della sopravvivenza», in cui il giornalista, pensando alla propria pelle, giocava sulla vanità dei terroristi, diventando per loro un «riferimento indispensabile e, come tale, […] più utile da vivo che da morto». Al contrario, Casalegno, condanna senza appello queste ambiguità.
Dirà di lui Bocca: «Leggendolo mi tormentavo […] nel capire che così lo aspettava la morte» ('Il Provinciale' p. 269). Nel settembre 1977, lui, editorialista di punta, chiede al direttore Arrigo Levi di andare a Bologna per seguire il convegno di tre giorni del movimento e dei gruppi dell’autonomia operaia. Vuole «avere le idee più chiare, per capire e per dialogare, o per scontrarsi». I collaboratori e i dissociati ci diranno, nei processi che anni dopo saranno celebrati, che quel convegno fu un vivaio cui i terroristi delle Br e di Prima Linea attinsero per reclutare nuovi militanti. Casalegno lo capisce e torna da Bologna ancor più convinto che la battaglia contro il terrorismo vada condotta con processi più rapidi e non accettando mai «un’involuzione autoritaria o la pratica della controviolenza ».
Perché la rinuncia alla democrazia, nel voler difendere la democrazia, sarebbe la vera vittoria politica dei terroristi. Bisogna piuttosto applicare le leggi che ci sono, assumersi ciascuno le proprie responsabilità, non tirarsi indietro, codardamente, di fronte alla violenza e alla sopraffazione. Casalegno è, insomma, uno di quei democratici che avrebbero voluto rendere più efficiente, più moderna e più vicina ai cittadini, la nostra democrazia; che vorrebbero «ridare credibilità democratica e progressista allo Stato». Per i terroristi, è il peggiore dei nemici. Al processo per il suo omicidio si saprà che l’articolo che lo ha condannato a morte, convincendo gli assassini brigatisti a sparargli in testa anziché alle gambe come avevano programmato, è un pezzo di taglio basso titolato «Non occorrono leggi nuove, basta applicare quelle che ci sono – Terrorismo e chiusura dei covi».
Gli sparano quattro colpi in faccia, alle ore 13,40 di mercoledì 16 novembre 1977, nell’androne della sua casa di corso Re Umberto 54, dove sta rientrando per pranzo. Morirà quattordici giorni dopo, al termine di una lunga agonia. La sera stessa dell’agguato, nel cuore di Torino, il sindaco Diego Novelli e il direttore del suo giornale Arrigo Levi parlano sul palco a una piazza San Carlo gremita come da tempo non si vedeva. Levi conclude tra gli applausi: «Questa è ancora una città. Essere città è essere civiltà, è mantenere il senso della propria identità. La città non è soltanto questi bellissimi portici, questo monumento, i palazzi e i parchi. La città è gente... Dico ai giovani: proteggete questa società democratica, perché al di fuori di questa c’è solo il disastro».