Gli accadimenti drammatici al Carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020 emersi nei giorni scorsi hanno riportato la questione carceraria sulle prime pagine dei giornali. Difficile non essere turbati da quelle immagini e sostenere tesi negazioniste su quegli episodi di violenza restituiteci in tutta la loro crudeltà dai video delle telecamere di sorveglianza. Eppure il rischio è che, superata l’emotività del momento, non si riesca a produrre politiche ed interventi in grado di generare cambiamenti, che il dibattito politico si areni come sempre sullo scontro tra chi vuole un carcere diverso e i difensori dello status quo. Il vero tema è che la pandemia ha palesato nella modalità più drammatica la crisi del nostro sistema penitenziario, già da diversi anni nota a tutti gli osservatori di questioni carcerarie e agli operatori stessi.
Le rivolte nelle carceri della primavera del 2020 sono state la manifestazione di un disagio profondo che si è cercato di soffocare, sedare e ignorare per non dare agibilità politica a un dibattito serio sulla questione carcere. Per fare passi in avanti è necessario prendere atto che il Covid è stato una miccia innescata in un sistema già da anni sull’orlo di una crisi di nervi. Il tasso di sovraffollamento carcerario dal 2015 a fine 2019 è passato dal 105% al 120% (per poi essere riportato al 105% con gli interventi di alleggerimento durante il 2020). Nello stesso periodo sono cresciuti significativamente gli eventi critici. Dal 2016 al 2019 gli atti di autolesionismo sono aumentati del 31,9% e i tentati suicidi del 49,5%. Questi dati sono indice non solo di cattiva qualità delle condizioni di vita delle persone detenute, ma anche del peggioramento del contesto organizzativo in cui si trova a operare l’amministrazione penitenziaria nonché di un ambiente di lavoro difficile, tossico e carico di tensione.
Dobbiamo senza ipocrisie ammettere che il carcere in Italia, per come è pensato e organizzato, non è un’istituzione in grado strutturalmente di perseguire il fine che gli viene affidato dalla nostra Costituzione. È un caso ormai conclamato di fallimento pubblico.
Pur in assenza di dati consolidati sulla recidiva, altro vulnus da colmare al più presto, basta osservare alcune semplici cifre per capire che questa non è un’opinione. L’Italia (dati 2020 del Consiglio d’Europa) è il secondo Paese in Europa, dopo Malta, per percentuale di numero di operatori di Polizia penitenziaria (nelle statistiche internazionali custodial staff) presenti negli istituti di pena, l’84,3% sul totale degli operatori, con una media Ue del 61%. Dopo di noi la Turchia con l’82,1%. In Francia, per esempio, la percentuale è del 70,1, in Spagna del 63,8 per citare alcuni Stati simili a noi per caratteristiche di sistema. Questo si traduce in rapporto tra detenuti e polizia penitenziaria di 1,8 mentre tra detenuti e personale addetto alla rieducazione c’è un rapporto di 76 a 1.
Non è solo un problema di quantità, ma anche di qualità dell’intervento e di competenze. In Paesi come Norvegia, Spagna e Germania la maggior parte dell’organico impiegato nell’attività di custodia non porta armi e viene formato attraverso corsi specializzati che toccano anche temi di psicologia e sociologia. Non solo. Oggi il carcere ha bisogno di professionalità in grado di gestire problemi di integrazione (più del 30% delle persone detenute sono straniere (in alcuni istituti si sfiora il 60%), di tossicodipendenza e di disagio psichico. È necessario incrementare la presenza di questo profilo di operatori e riconoscergli il dovuto spazio di azione.
L’altra questione è: quante risorse e attenzione oggi l’amministrazione penitenziaria dedica all’attività rieducativa? I dati (fonte Antigone) ci dicono che nel 2020 il budget è stato di 6,8 milioni di euro a fronte di una spesa complessiva del Dap di circa 3 miliardi, in pratica 0,35 centesimi in media al giorno per detenuto. L’attività di rieducazione negli istituti dipende in prevalenza dall’iniziativa di volontari che apportano risorse, impegno e competenze al servizio della causa. Un attivismo lodevole e importante senza il quale le carceri sarebbero luoghi di mera detenzione, ma insufficiente e spesso non adeguato rispetto ai fabbisogni reali dei detenuti. Le criticità sono molteplici. I progetti coinvolgono pochi detenuti e non sono continui nel tempo poiché dipendenti da piccoli finanziamenti annuali da parte di enti locali e fondazioni. I volontari non ricevono alcun tipo di formazione e pochi sono gli attori che professionalmente si dedicano alla rieducazione dei detenuti. Inoltre, l’amministrazione penitenziaria abdica a un ruolo di governo di questi interventi, i cui esiti in termini di impatto non sono monitorati e quindi non conosciuti. Come riformare il sistema?
I Paesi che hanno intrapreso percorsi di cambiamento hanno contrastato l’affollamento con misure alternative e combattuto la recidiva attraverso una maggiore apertura ai programmi riabilitativi, la socialità, il lavoro, l’istruzione e la responsabilità registrando miglioramenti nelle condizioni carcerarie e, conseguentemente, nel recupero dei detenuti. Gli esempi di Norvegia e Germania lo dimostrano. È importante sottolineare come questi Paesi siano passati attraverso importanti riforme giuridiche che hanno reso possibile un’organizzazione e un’allocazione delle risorse più funzionale alla missione riabilitativa del sistema.
Università Lumsa