Nel già rovente scacchiere mediorientale, dove quasi ogni
player sta giocando all’ombra della crisi siriana la propria partita, mancava soltanto la scintilla che ridesse fuoco alla diaspora millenaria fra islam sunnita e islam sciita. Un gesto sicuramente ben calcolato, perché la decisione del governo di Riad di giustiziare l’imam sciita Nimr al-Nimr è tutto tranne che preterintenzionale. Al contrario, l’esecuzione voluta dal re Salman bin Abdulaziz s’inquadra nella lotta per l’egemonia regionale fra l’Iran e l’Arabia Saudita, sullo sfondo della quale s’intravede quella vera «guerra dell’energia» cominciata con la drastica caduta dei prezzi del greggio provocata da Riad e complicata ora dal riaffacciarsi di Teheran sulla scena petrolifera dopo l’accordo raggiunto con gli Stati Uniti, ovvero con la superpotenza che l’ayatollah Khomeini chiamava «il Grande Satana» e che ora è diventato agli occhi dei sauditi «il garante dell’uscita di Teheran dall’isolazionismo», come tuonano i giornali degli Emirati, fedeli alleati di Riad. A poche ore dalla prevedibile rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi, seguiti dalla sospensione dei voli civili da e per Teheran (che a sua volta ha annunciato la sospensione dell’Umra, il pellegrinaggio "minore" alla Mecca, prima concreta ritorsione a seguito della strage avvenuta nel settembre scorso dove persero la vita nella calca almeno settecento fedeli provenienti dall’Iran), anche Bahrein, Sudan ed Emirati – e parzialmente il Kuwait – si sono accodati.Lo scenario con cui si apre il 2016 è quello di un’area in decomposizione. E non stiamo solo alludendo agli ormai obsoleti confini tracciati giusto cento anni fa dall’accordo Sykes-Picot fra il Regno Unito e la Francia che disegnarono il profilo geografico di Giordania, Iraq, Siria, Libano e Palestina: la crisi investe la concezione stessa di Stato, «ovvero – come ricorda sul
Foreign Policy Journal Richard A. Falk della Princeton University – quella visione
tatocentricatatocentrica emersa alla fine della Guerra dei Trent’anni con la pace di Westfalia, soppiantata in questi ultimi tempi dalla sfida dell’autoproclamato Califfato». Un’entità, il Daesh, che non abbisogna di riconoscimento né di legittimazione internazionale, che non fa parte di alcuna società delle nazioni ma che si comporta – pur nell’esiguità delle sue risorse e nella scarsa rilevanza della propria forza militare – come se fosse davvero uno Stato, se pure senza confini certi e riconosciuti. Uno Stato – per dirla con Zygmunt Bauman – che si è dato anche un territorio, ma che si rivela l
iquido a tutti gli effetti.Nel processo di decomposizione dell’area s’inscrive la crisi siriana con le sue conseguenze, le sue centinaia di migliaia di morti, i suoi milioni di profughi, l’ondata faticosamente governabile di migranti che investe l’Europa e ne amplifica le terribili contraddizioni, vellicandone le spinte xenofobe e le nostalgie autoritarie da ultimo la minaccia pervasiva del terrorismo che – anch’esso e non a caso – non rispetta alcun confine. Si è varie volte detto che l’Occidente, la Russia, la Nato, l’Onu si siano proditoriamente infilati nel mezzo di una guerra civile a sfondo religioso nella quale non erano stati invitati. C’è del vero, com’è vero anche che il sistema di alleanze su cui le grandi potenze hanno costruito la propria egemonia rendeva impossibile disinteressarsene. Il risultato più verosimile che si profila nel breve futuro è quello di un asse sunnita che fa capo a Riad, alla Turchia, al Qatar con il sostegno concreto degli Usa e un discreto appoggio di Israele, a fronte del quale si erge l’altro asse, quello sciita, costituito dall’Iran, dalla Siria, dagli hezbollah libanesi, dagli houti dello Yemen con l’appoggio militare e politico della Russia di Putin.Difficile, quindi, immaginare una soluzione delle varie crisi che si sovrappongono. Più facile, temiamo, che alla prossima scintilla il conflitto possa estendersi fra i Paesi dell’area, fra le diverse etnie e perfino all’interno dello stesso universo sunnita, in cui convivono i jihadisti del Daesh con quelli di al-Qaeda, i salafiti sostenuti da Riad con i Fratelli musulmani appoggiati da Qatar e Turchia. I mediatori stessi, dalla Russia che tenta di contenere l’invincibile rivalità tra Iran e Arabia Saudita all’Onu che invia Staffan de Mistura a Teheran e Riad («ma soltanto a parlare di crisi siriana»), appaiono per ora come fragili ombre impotenti. L’unico a beneficiare di questo caos che fa definitivamente esplodere la Grande Guerra Mediorientale al momento è al-Baghdadi, il capo del Daesh. E basterebbe questo a far riflettere Stati Uniti e Russia, i soli in grado di disinnescare davvero questa crisi.