Nel 1976, quando aveva 23 anni, Moon Jae-in partecipò da soldato semplice a una missione militare condotta nella Zona Demilitarizzata al confine con la Corea del Nord. Era la rappresaglia del Sud e degli Usa per il cosiddetto «incidente dell’ascia» in cui due ufficiali americani, impegnati a tagliare un pioppo che bloccava la vista agli osservatori dell’Onu, erano stati uccisi dalle truppe del Nord, secondo cui l’albero era intoccabile perché piantato dal «presidente eterno» Kim il-Sung in persona. Ora che Moon Jae-in, a sua volta figlio di profughi nordcoreani scappati durante la guerra del 1950-53, è diventato presidente della Corea del Sud, ci piace pensare che quel lontano, assurdo e mortale episodio della giovinezza abbia in qualche modo influito sulla sua vita di cattolico e di avvocato per i diritti umani, e magari anche sulla visione politica di cui si è fatto paladino. Il nuovo Presidente, questo è certo, non manca di tenacia.
L’elezione dei giorni scorsi lo compensa della sconfitta bruciante, perché di misura, subita nel 2012 contro Park Geun-hye, leader del fronte conservatore e figlia del capo di Stato maggiore dell’esercito Park Chung-hee diventato presidente nel 1961 con un colpo di Stato e assassinato poi nel 1979. Prima donna presidente, la figlia di Park si è tolta di mezzo da sola finendo in un torbido giro di plagio e corruzione, che l’ha portata prima all’impeachment e poi alla prigione. Moon, però, ha potuto approfittarne perché le sue battaglie per l’onestà e la correttezza sono di vecchia data, radicate in una lunga carriera nel Partito democratico, e non certo d’occasione.
Quando nomi come Samsung, Huyndai, Lg e altre firme illustri dell’industria coreana sono cominciati a risuonare nell’ambito delle indagini su Park Geun-hye, gli elettori hanno potuto apprezzare non solo le posizioni di Moon in merito all’etica pubblica, ma anche l’importanza del suo progetto di riforma delle chaebol, i grandi conglomerati che tanto hanno contribuito al decollo economico del Paese, ma che ora ne controllano di fatto le sorti (la sola Samsung vale il 17% del Pil nazionale) più dello stesso Governo. Moon, insomma, ha convinto perché un discorso 'da sinistra' sulla ricucitura delle disuguaglianze sociali e sull’impegno per garantire un futuro ai giovani (tra i 15 e i 29 anni i disoccupati sono ormai al 10%, quota assai alta per un dragone economico dell’Asia) era ormai improrogabile dopo un decennio dominato dalle politiche iperliberiste applicate 'da destra'.
Ma la Corea del Sud non è solo un gigante che zoppica. È anche, e soprattutto nelle ultime settimane, una delle frontiere più calde del mondo. E qui, forse, l’esperienza giovanile del soldato Moon si è fatta sentire nei discorsi dell’aspirante presidente Moon. Da candidato si è guardato bene dall’entrare in rotta di collisione con il bellicismo ostentato da Donald Trump, ha criticato l’attendismo di Barack Obama e ha giudicato «prematuro» un eventuale incontro con Kim Jong-il. Ma ha anche giudicato «non democratica» la fretta con cui gli Usa hanno dispiegato un sistema antimissile in territorio sudcoreano e ha fatto chiaramente capire di non voler andare allo scontro con la Corea del Nord, essendo piuttosto intenzionato a ricucire i rapporti.
Da questo punto di vista è significativa la sua volontà di far ripartire il complesso industriale di Kaesong, chiuso dal precedente Governo all’inizio del 2016. Sito nell’omonima città della Corea del Nord, a poca distanza dal confine e a un’ora di auto da Seul capitale del Sud, fu fondato nel 2002 come iniziativa congiunta tra le due Coree, con lavoratori dell’uno e dell’altro Paese, e poco dopo trasformato in zona economica a statuto speciale. I vantaggi reciproci sono evidenti. Le 123 aziende lì presenti del Sud impiegano circa 60 mila lavoratori del Nord che percepiscono salari inferiori, ma sono competenti e ovviamente parlano il coreano. Il Nord acquisisce competenze tecniche e riceve iniezioni di denaro fresco.
Ma è soprattutto l’esempio che vale. L’idea che la convivenza è possibile, che un confine non significa guerra, che le differenze ideologiche non possono fermare il dialogo tra due popoli che sono, in realtà, uno solo diviso in due. È questo, dunque, l’orizzonte ideale di Moon Jae-in. Che con un’elezione, quindi, non è diventato solo il Presidente della Corea del Sud ma anche un portatore di speranza per il mondo intero. Un mondo dove invece abbondano quelli ancora convinti che la guerra sia una risposta non solo possibile ma addirittura accettabile.