Il dibattito sull’Europa in questa vigilia elettorale appare troppo spesso legato ad aspetti di politica nazionale, a interessi particolari interni a partiti o a coalizioni, più che ad una prospettiva politica. Mentre la posta in gioco è (o dovrebbe essere) quella di una nuova identità europea da costruire, oppure il rassegnarsi a un ruolo marginale del “club di Bruxelles”. L’Europa può solo andare avanti o andare verso una crescente irrilevanza politica. Gli eventi di questi ultimi anni dicono di un bisogno di un’Europa più politica, che si percepisca come tale e si doti di istituzioni più efficaci per elaborare politiche unitarie. Per questo è importante l’indirizzo politico che verrà dalle elezioni di giugno.
L’alternativa per i cittadini europei è il ritorno di potenze regionali che ridurrebbe l’Ue ad una sorta di confederazione. Una opzione, questa, che snaturerebbe l’intuizione della dichiarazione Schuman e dei padri fondatori e che relegherebbe l’Ue a un ruolo ancor più marginale rispetto alle dinamiche della globalizzazione e del confronto multipolare fra blocco occidentale, Cina-Russia e blocco dei grandi Paesi in via di espansione. In questo scenario, agli Stati europei non resterebbe che la funzione di portabandiera irrilevanti di una Casa Bianca (contesa da Biden e Trump) sempre più disinteressata rispetto al vecchio Continente.
Per questo il confronto elettorale di queste settimane dovrebbe essere su temi concreti. L’Europa è la patria storica della democrazia e dei diritti da difendere, per cui lottare anche al di fuori dei suoi confini. Propongo due esempi. Che dire dell’assenza di una politica migratoria coerente su scala europea, capace di istituzionalizzare corridoi umanitari e meccanismi di identificazione e selezione delle domande di asilo rispettose della dignità di chi li chiede. Liberi di restare, liberi di partire oltre che uno slogan dovrebbe essere un principio che impegna i politici nella ricerca di possibili soluzioni da sperimentare e inventare ogni giorno. Si assiste invece all’affermarsi del modello delle “deportazioni” in Stati terzi, mediante accordi siglati in autonomia dai singoli Stati. Una prassi che, nei fatti, è una riproposizione in forma diversa di quei respingimenti forzati e di quei muri che ledono la dignità umana. Fanno da monito, su questo, le parole di Mons. Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per la pastorale delle migrazioni e della Fondazione Migrantes, che parla di una «Europa che si chiude in se stessa, trascura i drammi dei migranti in fuga, sostituisce la vera accoglienza con un pagamento in denaro. E pretende ancora di più dai Paesi di frontiera, come l’Italia».
Il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza il “Patto europeo sui migranti richiedenti asilo e rifugiati”, un accordo che nelle intenzioni dei proponenti avrebbe dovuto modificare le regole di Dublino, con un impegno solidale di tutti i Paesi membri dell’Unione nell’accoglienza. Nella sostanza ha segnato una deriva nella politica dell’asilo e il fallimento della solidarietà europea. Questo sfondo suggerisce allora che le prossime elezioni europee saranno anche un banco di prova per verificare la validità dell’Europa che attinge alle sue radici solidali nel rifiuto di nazionalismi e populismi.
Un secondo importante snodo per il futuro degli europei è il confronto che si gioca nell’Europa dell’Est fra una visione cooperativa dell’Ue ed un disegno nazional populista che rivendica la necessità di rallentare se non frenare il processo di integrazione, in nome di un tradizionalismo che spesso vanta una matrice ultracattolica. La propaganda del PiS (in polacco Prawo i Sprawiedliwość, cioè Diritto e Giustizia), come anche quella di figure come Orban, è imperniata sull’agitare la bandiera del pericolo imminente e dunque sul far leva sull’antislamismo, sul contrasto all’ideologia Lgbt+ e alla politica agricola europea. Una “eurofobia” superficiale quella “in salsa orientale”, a cui si sono associati in più di un caso sia la Lega che Fratelli d’Italia.
Tra i temi cui prestare attenzione vi è poi la difesa della democrazia. Il 12 dicembre 2023 la Commissione Europea ha proposto un “Pacchetto” di Proposte e Raccomandazioni per la difesa della democrazia. Al centro vi è il tentativo di migliorare la trasparenza e la responsabilità democratica delle attività di rappresentanza di interessi per conto di Paesi terzi, finalizzate a influenzare le politiche, il processo decisionale e lo spazio democratico. Questioni cruciali, soprattutto nel momento in cui sono ancora aperte le prospettive di un ulteriore allargamento a Est e ai Balcani occidentali. La gestione di quei processi sarà un altro banco di prova per mettere a punto una rinnovata governance. Il progetto di una Conferenza sul futuro dell’Europa messo in atto da David Sassoli (sospeso a causa della pandemia e della prematura scomparsa del presidente del Pe) resta urgente e valido nel metodo.
Rispetto a simili questioni poste dalla realtà delle cose, la campagna elettorale, soprattutto in Italia, lamenta l’assenza di un dibattito sui grandi temi, che indichi chiaramente degli obiettivi programmatici, non riducendosi al toto-nomine di candidati improbabili svincolati da programmi realistici. Occorrerebbe infine un confronto autenticamente democratico sul grande tema della pace, della sicurezza, della difesa, delle spese per gli armamenti, da declinare su proposte e progetti misurati sulla carne ferita dei popoli in guerra.
Siamo chiamati ad un nuovo protagonismo perché da cattolici abbiamo a cuore il futuro del continente e prima e più ancora, la convivenza pacifica dei popoli. Rispetto a questo l’Europa, se ben intesa e guidata, potrebbe svolgere un ruolo di tutto rilievo. Esiste in proposito un percorso che è già intrapreso: si pensi, ad esempio, a quanto si è mosso nell’ambito delle Conferenza episcopali europee. Un orizzonte su cui c’è oggi forse la possibilità di spingere ulteriormente lo sguardo, anche ipotizzando la realizzazione di una “Camaldoli Europea”.