Due sono le anime che da oltre un paio di secoli scorrono turbolente nelle vene della Francia: quella rivoluzionaria e quella bonapartista. Della prima abbiamo abbondanza di cronache e controverse testimonianze ora di ardore popolare ora di crudeltà giacobina; della seconda abbiamo un campione come Napoleone che alla seconda anima ha addirittura dato il nome. Emmanuel Macron è una sintesi quasi perfetta dei due ingredienti. Non ci inganni la vittoriosa affermazione elettorale che due mesi fa ha messo all’angolo il pericolo lepenista: il rivoluzionario, l’uomo venuto dal nulla che cambiava repentinamente bandiera abbandonando un ministero socialista e inventandosi un movimento tutto suo era lui, non Marine Le Pen, stanco epigono di un populismo fracassone e sfibrato, come sfibrata era la sua copia spartachista, il paracomunismo di Jean-Luc Mélenchon.
Per quel guizzo rivoluzionario Macron ha sormontato lo scetticismo di chi vedeva in quel ragazzo prodigio un nonsoché di ambiguo e di irrisolto (a cominciare dalla provenienza elitaria del suo cursus honorum), ma la vittoria piena il nuovo inquilino dell’Eliseo la deve anche a quel quid di bonapartismo che già s’intuiva al momento della sua passeggiata notturna davanti agli elettori assiepati attorno alla Pyramide: un corteo solitario, del tutto simile all’incedere sovrano con la rosa in pugno di un altro illustre bonapartista, il suo predecessore François Mitterrand. Ora che Macron dispone del grande potere che la Francia assegna ai suoi presidenti, il bonapartismo che già lumeggiava nei lampi assertivi del suo sguardo durante la campagna elettorale si è rapidamente dispiegato nei fatti.
La conferenza en solitaire a Versailles, il summit a sorpresa sulla Libia con il generale Haftar e il premier al-Sarraj, la controversia dei cantieri navali Saint-Nazaire, la fulminea rimozione del capo di stato maggiore dell’esercito, l’invito a Donald Trump per la festa della Bastiglia, il piano condiviso con Angela Merkel per chiudere le frontiere ai migranti e riscrivere il Trattato di Schengen, tutto concorre a disegnare il profilo – tra Luigi XIV e De Gaulle – dell’uomo solo che incarna, anzi 'è' lo Stato. Nessuna meraviglia, da oltre mille anni la Francia gode di una dignità monarchica e da quattrocento anni proclama – non senza legittimità, talvolta – la propria grandeur come sigillo della propria missione nel mondo. Legittimo, non nascondiamocelo, è l’impegno di Macron di riportare il Paese a un ruolo di primo piano nel mondo, anche a costo – così è fatta la politica e così dall’epoca delle cannoniere sono fatte le relazioni internazionali – di schiaffeggiare non solo gli avversari ma anche gli alleati. In leggera e imprevista crisi di popolarità, Macron ha subito risfoderato quel nazionalismo che poggia sulle grandi figura del passato e del Novecento per tranquillizzare i francesi che lo hanno votato, al quale ha mescolato abilmente un poco del populismo della Le Pen, quel tanto che basta a far sentire grande la Francia.
Il rischio, tuttavia è dietro l’angolo: quello cioè di diventare la caricatura di un passato che non ritorna, o peggio, di deludere anzitempo una società che lo ha incoronato più per paura che per convinzione e che risulta più attenta alla scricchiolio dell’economia reale che alla grandeur militare, agli affari con gli Emirati o al privilegio di un Paese – unico nella Ue dopo l’uscita della Gran Bretagna – che siede come membro permanente con diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. In altre parole, quell’impeto da Primo Console con cui Macron sta affrontando i capitoli della sua agenda politica potrebbe rivelarsi la peggiore delle strategie: vincente, forse, nelle prime battute, fallimentare nei fatti. Con l’aggiunta di una sorda e durevole ostilità da parte di quegli alleati che nella sua cavalcata verso il futuro ha poco elegantemente messo da parte. Anche Hollande è divenuto dopo breve la caricatura di sé stesso. Con gli esiti che conosciamo.