Ansa
«Il Servizio sanitario nazionale inglese ha considerato attentamente la revisione delle evidenze condotta dal Nice (National Institute for Health and Care Excellence) (2020) e ha identificato e rivisto tutte le ulteriori evidenze pubblicate disponibili a oggi. Abbiamo concluso che attualmente non esistono prove sufficienti a sostegno della sicurezza o dell’efficacia clinica dei bloccanti della pubertà per rendere il trattamento disponibile di routine». Questa, il 12 marzo, la decisione del gruppo di lavoro istituito nel gennaio 2020 dalle autorità sanitarie inglesi per una revisione dei trattamenti per minori sofferenti per disforia di genere, cioè che provano disagi e malesseri importanti perché non si riconoscono nel sesso di nascita. D’ora in poi nel Regno Unito a questi ragazzini potranno essere somministrati i bloccanti solo nell’ambito di trial clinici: secondo la ministra della Sanità Maria Caulfield si tratta di una «decisione storica», che «riconosce che la cura deve essere basata sull’evidenza, sull’opinione clinica degli esperti e nel miglior interesse del bambino».
Il blocco della pubertà è il primo tratto del cosiddetto “protocollo olandese” nei casi di disforia di genere: se la maturazione sessuale è agli inizi (mediamente intorno ai 12 anni) è possibile bloccarla con appositi farmaci in attesa di proseguire successivamente – lo fa il 98% di chi li assume – con ormoni mascolinizzanti o femminilizzanti, intorno ai 16 anni, e poi con eventuale intervento chirurgico. Bloccanti, ormoni e chirurgia sono gli elementi che caratterizzano le terapie gender-affirming, volte cioè ad assecondare la percezione individuale e soggettiva del proprio genere. A presiedere la revisione inglese Hilary Cass, già presidente della Società scientifica pediatrica del Regno Unito, che non si era mai occupata in precedenza del tema: una scelta motivata dalle autorità sanitarie «data la polarizzazione sempre più evidente fra i professionisti clinici». Il dibattito internazionale è infatti a dir poco aspro: attraversa le comunità scientifiche, spaccate al loro interno, e le travalica, promettendo di essere uno dei fronti più accesi della campagna elettorale per il prossimo presidente americano.
Finora vecchio e nuovo continente hanno segnato due orientamenti contrapposti: da un lato diversi Paesi del Nord Europa hanno avviato da alcuni anni una rivisitazione dell’uso dei bloccanti nelle terapie affermative, rendendolo marginale, se non residuale. Svezia, Finlandia, Norvegia e adesso – appunto – la Gran Bretagna riconoscono concordi la mancanza di studi ed evidenze scientifiche sull’efficacia e la sicurezza di questi protocolli, pesantemente e irreversibilmente invasivi. Dall’altro gli Stati Uniti, dove continua invece a prosperare il mercato dei trattamenti medici e chirurgici connessi alle transizioni di genere, specie di giovani e giovanissimi, e delle cliniche dedicate. Nel frattempo si registra, nel mondo occidentale, un aumento esponenziale di adolescenti con diagnosi di disforia di genere, in grande maggioranza nate femmine.
A fare da riferimento a livello internazionale sono le linee guida della Wpath, l’Associazione professionale mondiale per la salute transgender. Fondata nel 1979, raccoglie più di 3mila professionisti in diversi ambiti – sanitario, legale, formativo – impegnati a «promuovere assistenza, educazione, ricerca, politiche pubbliche e rispetto per la salute dei transgender basati su prove di efficacia». È del 2022 l’ultima (ottava) edizione degli standard di cura, aggiornata rispetto alla precedente, del 2012, a partire dalle definizioni: si usa l’espressione Transgender and Gender Diverse people, Tgd l’acronimo; si parla di “Disforia di genere” in termini di salute mentale nel Dsm-5-Tr (quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disordini Mentali, a cura della Associazione psichiatrica americana), mentre l’Icd-11 (classificazione internazionale delle malattie, undicesima versione, a cura dell’Organizzazione mondiale della sanità) depatologizza il linguaggio, adoperando “Incongruenza di genere” , una condizione rubricata all’interno della salute sessuale anziché fra i disturbi mentali.
È il manifesto delle terapie gender affirming, anche se «la base di evidenza empirica per la valutazione degli adulti Tdg è limitata. Include principalmente un approccio di valutazione che utilizza criteri specifici esaminati da un operatore sanitario in stretta collaborazione con un adulto Tdg e non include studi controllati randomizzati o ricerche longitudinali a lungo termine». Ci sono pure nuovi capitoli, fra cui quelli dedicati agli eunuchi e alle persone non binarie: per queste ultime si possono anche prevedere interventi chirurgici addizionali come ad esempio vaginoplastica inclusiva della preservazione del pene, oppure dei testicoli, e anche «procedure che risultano nell’assenza di caratteristiche primarie sessuali esterne ». Per gli adolescenti non c’è un’età minima per la somministrazione di bloccanti o di ormoni, ma si individua un preciso, iniziale stadio di avanzamento della pubertà (Tanner due).
Nessuna soglia di età neppure per la chirurgia: per accedervi si richiedono almeno 12 mesi di terapia ormonale. Il 4 marzo, però, l’autorevolezza della Wpath ha subìto un colpo durissimo, con la pubblicazione, a cura di Michael Shellenberg, fondatore e presidente della Environmental Progress, di The Wpath files: 170 pagine per la trascrizione di un video e una selezione di messaggi di una chat riservata ai membri della associazione da cui emerge un tasso impressionante di approssimazione e superficialità, supportato da una abbondante dose di ideologia. Trattamenti su minori con pesanti problematiche di salute mentale, dettagli di discutibilissimi interventi anche chirurgici, a livello genitale, spesso improvvisati per stessa ammissione dei membri della chat, insieme alla consapevolezza del fatto che i giovanissimi che accedono alle terapie affermative – e talvolta anche i loro genitori – non sono in grado di capirne le conseguenze per tutta la loro vita, ad esempio la sterilità e la funzionalità sessuale. E pensare che secondo la Wpath questi percorsi «sono basati su decine di anni di esperienza clinica e di ricerca; pertanto non sono considerati sperimentali ».