Proprio come nella rete autostradale che innerva (dove arriva) la Penisola, i piani e gli argomenti si intersecano nella complicata vicenda di Autostrade per l’Italia, riportata ieri prepotentemente sotto i riflettori dagli arresti dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci e di altre cinque persone tra tecnici ed ex dirigenti della società. Il diritto societario s’intreccia così a quello penale, la finanza e la Borsa sono costrette a fare i conti con la politica, i soldi pubblici se la devono vedere con i bilanci privati e l’informazione economica, appunto, trascolora in cronaca giudiziaria. Insomma, è come percorrere una carreggiata a tante corsie e ritrovarsi all’improvviso davanti a una strettoia che ci imbottiglia in una sola, come non di rado accade in autostrada. Per lavori in corso, spesso. Lavori che tuttavia, a giudicare dai risultati, dovrebbero essere molti di più. In questo caso, la corsia unica in cui s’infila il ragionamento è proprio quella che conduce al nodo della gestione delle autostrade. Lungi da noi attribuire responsabilità con inchieste giudiziarie ancora aperte e solo sulla base di elementi di accusa. Quello è il mestiere dei giudici ed è bene, per tutti, che rimanga a loro, vagliate tutte le prove a carico e a discolpa.
Tuttavia gli ultimi sviluppi sollevano nuovamente molti interrogativi sulle concessioni autostradali e, volendo allargare il discorso, sul modello nostrano di 'privatizzazioni'. Il primo interrogativo è senz’altro questo: una volta affidata la concessione e incassato il pattuito, lo Stato ha terminato il suo compito, o deve verificare che la condotta del concessionario sia diligente, nei bilanci come nella manutenzione, nella proporzionalità tra i pedaggi richiesti ai cittadini e la qualità del servizio reso?
Domanda retorica, ovviamente. Dunque, se è vero che le barriere fonoassorbenti di Genova erano tenute insieme «con il Vinavil», per dirla con uno degli indagati in una conversazione intercettata, perché nessuna verifica esterna ad Aspi aveva fatto emergere quella pericolosa precarietà?
Forse perché verifiche non ce ne sono state? Altra domanda retorica, temiamo. Si tratta di 60 chilometri su un totale di 3mila, ha sottolineato Autostrade. Ma il resto della rete non gode di buona salute, come testimoniano diversi episodi e, su tutti, il tragico crollo del ponte Morandi. Ecco dunque, il secondo interrogativo: ha senso dare in concessione un 'monopolio naturale' come quello delle autostrade? La prima risposta la troviamo nel fatto che, purtroppo, non sono esenti da incidenti nemmeno i tratti stradali rimasti all’Anas, impresa industriale pubblica. La seconda è che, oltre alla mera necessità 'di cassa', se lo Stato ha deciso di affidare ad aziende private la gestione di quello che è e rimane un bene pubblico è perché ha giudicato troppo oneroso e impegnativo mantenerla nelle sue mani. Quindi il problema non sembra risiedere tanto nell’assetto societario e proprietario della gestione, quanto nelle modalità con cui la stessa è operata. Per capirci: i concessionari – quelli privati sono 25, anche se Aspi controlla la metà dei circa 6mila chilometri della rete in concessione – dovrebbero ricavare il proprio giusto profitto assicurando al tempo stesso tariffe ragionevoli (siamo, lo ricordiamo, in regime di monopolio: non c’è concorrenza), la dovuta manutenzione, la trasparenza nei bilanci. Per la verità, fin dalla privatizzazione avviata circa venti anni fa, perfino i termini delle concessioni autostradali sono rimasti segreti. Altro che trasparenza. Lo Stato, da parte sua, dovrebbe vigilare sul rispetto di tali condizioni. Sembra facile ma, evidentemente, non lo è. Leggiamo dalla deliberazione della Corte dei Conti sulle concessione autostradali, pubblicata meno di un anno fa: «Su un organico di 250 unità, ne sono in servizio, presso la Direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali, 110, alcune a tempo determinato, cosa che non consente il raggiungimento e il mantenimento delle professionalità e delle competenze necessarie».