Com’è facile, di fronte a eventi terrificanti, come la strage compiuta un anno fa sull’isola norvegese di Utoya da un fanatico ultranazionalista, Anders Behring Breivik, in cui persero la vita 68 giovani partecipanti ad un campo estivo dei 'laburisti' (e altre nove erano state le vittime di un’esplosione sempre progettata dallo stesso Breivik nel centro di Oslo), archiviare il caso come un atto di assurda violenza, nutrito nel torbido terreno dell’odio xenofobo e razzista.Tutto questo è vero, senz’altro. E la condanna inferta all’assassino – 21 anni, il massimo previsto dalla legislazione norvegese – sembra quasi un argine inadeguato contro il terribile sguardo del reo confesso, tutto fiero beffardamente della sua azione, pentito solo di non averne potuto uccidere di più, dei suoi giovani "nemici", come egli stesso ha dichiarato dopo la lettura della sentenza. Ma anche una risposta del tutto insufficiente (e questo a prescindere dal numero di anni di prigionia) all’attesa di giustizia che un tale evento provoca inevitabilmente in noi.Si tratta di un’azione in qualche modo non risarcibile, e la giusta pena non colma la misura abissale della distruzione di quelle vite. In altri Stati la condanna sarebbe stata certamente molto più pesante, e coloro che considerano la leggerezza del castigo una misura del tutto inadeguata rispetto all’enormità del delitto (come una crepa evidente nelle legislazioni occidentali più liberal rispetto alle sfide delle società multiculturali e multietniche) si opporranno senz’altro a coloro che invece plaudono alla saldezza di una giurisprudenza che riesce a contenere, senza demonizzare indebitamente, anche i delitti più eclatanti, mettendo al centro la possibilità e anzi il diritto dei colpevoli ad una rieducazione sociale.Ma in entrambi i casi questa condanna non può esimerci dal guardare in faccia il male che un uomo – riconosciuto peraltro dal Tribunale "sano di mente" – è capace di fare. Questa parola, "il male", ci inquieta profondamente: e difatti tutti noi cerchiamo di sbarazzarcene subito o addossandolo interamente sul funzionamento psicologico dell’assassino, e vederlo così, a distanza, come una possibilità orrenda – un difetto neurologico, insomma – che non potrà mai essere nostra; oppure pensando che essa è solo il frutto di un contesto sociale inadeguato, esso sì veramente colpevole di aver permesso e sviluppato un’ideologia cha avrebbe armato la mano del colpevole.Eppure il male è un punto non risolto nella nostra esperienza: una possibilità drammatica che affonda nelle pieghe della nostra individualità personale (personale: cioè dotata di ragione e libertà), e che con altrettanta evidenza tutti noi condividiamo. Noi non siamo come l’assassino Breivik, grazie a Dio; e tuttavia bisogna pur dire che alla radice del gesto inconcepibile di quest’uomo si rende manifesta una tendenza o almeno una possibilità che in qualche maniera – ecco l’inquietante, ecco l’inaudito – ci appartiene.Guardare in faccia questo male, accettare di non censurarlo o nasconderlo, può significare però due cose diverse per noi. O arrendersi al fatto che in definitiva la libertà umana non possa sottrarsi a un destino irrazionale, rimanendo prigioniera della sua stessa volontà di potenza e di distruzione; oppure percepire tutto lo stridore e la contraddizione che il male provoca in noi, rispetto a ciò che desideriamo per noi stessi.Percepire questa contraddizione tra la nostra capacità di fare il male, cioè di distruggere noi stessi e il mondo attorno a noi, e il nostro desiderio di "essere" positivamente noi stessi è forse una delle esperienze più interessanti e decisive del nostro "io", e noi ce ne accorgiamo soprattutto quando proviamo rimorso o pentimento. Ma questo può succedere proprio perché è presente in noi, come una traccia indelebile, l’evidenza di un bene che viene prima del male, e che ci fa giudicare – dentro il male che possiamo fare – che siamo fatti invece per il bene e che siamo noi stessi un "bene", come si può vedere in maniera affascinante in alcuni personaggi dei romanzi di Dostoevskij.È come una "fattezza" originaria che si rende trasparente nell’esperienza del male: siamo fatti bisognosi di tutto: ma non è un bisogno sinonimo di impotenza, bensì indice del nostro rapporto con un’alterità senza di cui non saremmo davvero liberi. E difatti anche il 'peccato originale' è tale perché all’origine dell’uomo c’è il rapporto buono con il suo creatore e la sua libertà è chiamata sempre a scegliere se seguirlo o disfarlo. È forse qui il più acuto dramma di Anders Breivik, quello di non sentirsi bisognoso di nient’altro da se stesso e pensare di poter e dover essere il padrone di sé e del mondo. Ma è proprio quello che il suo gesto assurdo e malvagio ci chiede di riconoscere ancora una volta.