L’ex premier voleva essere un liberale, ma lo è stato soltanto in parte L’università del pensiero liberale tante volte annunciata non ha davvero visto la luce prima della sua scomparsa. Né probabilmente la vedrà ora. Doveva essere un contributo di Silvio Berlusconi a quel filone culturale sempre evocato a parole e mai veramente innervato nell’intrattenimento, nella società e nella politica, ambiti fortemente segnati dalla figura del Cavaliere negli ultimi 40 anni.
Quaranta perché bisogna guardare a prima della sua discesa in campo del gennaio 1994 e considerare quello che hanno portato nel costume e nella mentalità le reti televisive targate Fininvest, fortemente plasmate dalle personali scelte e intuizioni del proprietario manager. Verrebbe da dire che la sua è stata più un’antropologia incarnata nel doppiopetto e nei maglioncini girocollo scuri, secondo le occasioni pubbliche, che non un’idea di Paese. Uno straordinario personaggio, Berlusconi, che però è stato davvero autobiografia di una parte di nazione, capace poi di esercitare la sua influenza anche oltre confine, ispiratore com’è stato per Donald Trump, per citare solo un esempio.
E qui è necessario provare a precisare quello che sarà a lungo un argomento per storici e sociologi. Straordinario Berlusconi è stato per la capacità di rendere concreti e visibili sogni e aspirazioni di tanti, dando voce a un moderatismo sociale e un centrismo politico che non voleva più nascondersi dietro le forme compite, e magari qualche volte ipocrite, dell’era democristiana. In un contesto generale in rapida evoluzione, spinto dalle tecnologie e dal contestuale mutamento delle relazioni industriali e sociali, l’imprenditore di successo volle presentarsi come l’uomo animato dagli stessi valori e interessi dei consumatori, telespettatori o elettori cui si rivolgeva. Non era la ripetuta adesione all’ispirazione cristiana, liberale, garantista, europeista, atlantista che suscitava l’entusiasmo e l’ammirazione di chi lo votava o comunque provava simpatia per la sua figura di tycoon dalla comunicativa calorosa e dalla barzelletta pronta. La sua ascesa come leader politico dal carisma intramontabile è stata legata al suo essere “uno di noi”, indulgente nei difetti e nelle debolezze di ciascuno perché, quando si manifesta dentro la grandezza di un uomo di successo, il lato meno commendevole dei nostri istinti viene sublimato e perdonato con un darsi di gomito e un sorriso complice. Ecco l’antropologia più forte della cultura. L’idea liberale che Berlusconi voleva costruire era minoritaria tra le due grandi tradizioni egemoni nel dopoguerra, quella comunista-socialista e quella cattolica- democristiana.
E minoritaria è rimasta dato lo scarso impegno fattivo al di là delle enunciazioni di principio. Liberale non era propriamente il modo in cui si era fatto spazio nel mercato radiotelevisivo a colpi di patronage politici, in una cornice normativa, c’è da sottolinearlo, che di liberale aveva ancora meno. La divisione dei poteri non era nelle corde del proto-populista Berlusconi («chi ha l’investitura degli elettori ha diritto di governare »), i formalismi procedurali venivano spesso vissuti come un ostacolo alla tanto sbandierata praticità del fare («creare un milione di posti di lavoro»), i conflitti con la presidenza della Repubblica e, soprattutto, con la magistratura – una disgrazia per il Paese, qualunque sia la prospettiva adottata – hanno segnato la sua linea di governo. Quattro volte a Palazzo Chigi sull’onda di quell’identificazione che l’ha reso un’icona.
Autobiografia di parte della nazione, si diceva. Avrebbe sinceramente voluto essere amato da tutti, Silvio Berlusconi. Anche dai “comunisti” che per anni ha presentato come il pericolo massimo da cui difendere l’Italia (a cominciare da Achille Occhetto ora quasi papalino). Infatti, divenne amico fraterno di Vladimir Putin, il presidente autoritario e imperialista che siede al Cremlino successore, tra gli altri, di Stalin e Breznev. Ma di essere benvoluto di tutti, malgrado la generosità personale, non gli riuscì. Dava carne e sangue a quella narrazione – come si dice oggi – avversata oltre che dalla sinistra in toto (va da sé), pure dai ceti intellettuali, dall’aristocrazia economica, dal cattolicesimo austero e sociale. La ricchezza esibita, la popolarità come misura del valore, la corrività, il compiacimento per il gusto popolare nella tv, nel cinema, nella letteratura (la postura generalmente anti-intellettualistica solo tenuamente contrastata dalla bibliofilia coltivata per interposto Marcello Dell’Utri), il maschilismo dello sciagurato bunga bunga (non a caso una delle prime cose ricordate nel mondo alla sua scomparsa) travestito da speciale devozione verso le donne, la spregiudicatezza nel fare politica con i sondaggi e le promesse che si rivolgevano alla pancia della gente… Tutto questo piaceva a tanti, che avrebbero voluto essere e vivere come il Cavaliere e nello stesso si vedevano giustificati nel non coltivare le qualità (esigenti) che avrebbero permesso di diventare come lui.
Ovvero, basta vergognarsi di pensare (e dire) con Paolo Villaggio/Fantozzi che «la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca». In sintesi, Costa Smeralda vs Capalbio. Ed è inutile negare che la tentazione era quella di godersi spensieratamente i fuochi d’artificio a Villa Certosa e i successi del Milan. Divertirsi non è stato più tabù con Berlusconi, né l’impegno un dovere permanente: in questo è stato davvero liberale accodandosi e accelerando l’ipermodernità fluida dell’individualismo e dei diritti. Non ha solo interpretato un filone di umanità italiana, ha contribuito a plasmarlo. Pagare le tasse come sforzo doloroso (e qualche volta da evitarsi del tutto), la legalità rigorosa come impiccio (e le inchieste diventano una “persecuzione”). Ma anche un insistere sulla libertà per cui ci si deve sempre battere, forse retorico mai però inutile. In ogni caso, fare bilanci definitivi oggi è azzardato. Quello che non si può fare in morte di Silvio Berlusconi è sottovalutarne l’enorme impatto antropologico sull’Italia dell’ultimo quarantennio. ISERVATA