I conti non tornano. E anche se tornassero, non basterebbe. Il Parlamento greco, in un’Atene in fiamme, ha varato un nuovo piano di austerity. Definirlo "draconiano", dato il contesto, non è retorico: rasoiate a salari minimi, pensioni e dipendenti pubblici (150mila in meno in tre anni); tagli a farmaci e ospedali. In cambio, il progetto di accordo tra la Grecia e i suoi creditori internazionali prevede il via libera al secondo salvataggio da 130 miliardi di euro, con la possibilità di usufruire di 35 miliardi di prestiti dal fondo temporaneo salva-Stati Efsf. Una boccata d’ossigeno finanziario indispensabile per onorare quanto meno il rimborso dei titoli di Stato in scadenza a marzo ed evitare il crac.
Ma il Paese è già allo stremo. E misure così austere di contenimento della spesa pubblica avranno inevitabilmente effetti depressivi. La Grecia è condannata alla miseria per i prossimi dieci anni. I conti non tornano soprattutto perché la crisi di Atene si sarebbe potuta risolvere con una manciata di miliardi tre anni fa. A dire 'no', allora, furono Francia e Germania. Le banche francesi e tedesche avevano in portafoglio due terzi del debito ellenico. E lo avevano in tasca perché quei titoli rendevano bene e gonfiavano i bilanci. Esplosa la bomba, sarebbe stato sufficiente che i due Paesi accettassero subito la ristrutturazione, con una perdita per le banche prestatrici nell’ordine del 20%. Poche decine di miliardi. Ma Berlino e Parigi hanno rifiutato, vendendo al contempo i bond greci per ripulire i bilanci. A intervenire sono stati, allora, l’Unione Europea e il Fondo monetario con 105 miliardi. La famosa 'prima tranche di aiuti', a un tasso d’interesse doppio rispetto a quello medio europeo. Dopo aver naturalmente preteso una manovra di rigore che ha provocato un crollo del Pil nell’ordine del 6%. Solo negli ultimi sei mesi sono fallite 60mila imprese, a dicembre la produzione è scivolata del 15% e la disoccupazione ha sfiorato il 21%.
Nel frattempo, però, mentre non ci rimettevano mezzo euro per le loro banche, tedeschi e francesi, in cambio degli aiuti, hanno continuato a vendere armi ad Atene. Quest’anno la Grecia prevede una spesa militare superiore ai 7 miliardi, il 3% del Pil: proporzioni 'americane' (l’Italia è allo 0,9%). I tedeschi sono i primi fornitori europei, secondi in assoluto dopo gli Usa. Vendita di armi in cambio degli aiuti, così finendo per alimentare proprio quella spesa pubblica che ha gonfiato il debito e sulla quale ora si pretendono tagli draconiani, ma a pensioni e salari. La denuncia è arrivata dai giornali tedeschi. Qualcuno continua a chiamarla Realpolitik. Ma anche se i conti tornassero, si diceva, di certo non basterebbe. Scongiurato il default di marzo, è comunque necessario potenziare il fondo salva-Stati. Proprio per concedere più tempo alla Grecia. Ancora una volta, da Berlino arriva un
nein. Non ci si fida delle promesse ateniesi, più volte disattese. Si considera un «azzardo morale» accordare troppo credito a chi ha più volte «truccato le carte ». E la Grecia, è vero, lo ha fatto. La Germania, invece, è abituata a rispettare gli impegni. E giustamente pretende che a farlo siano anche agli altri partner della Ue. Ma se se oggi c’è una casa comune europea, è proprio perché alla Germania è stato "dato credito". E insieme al credito, il giusto tempo per risollevarsi. Anche la Germania, sessant’anni fa, è stata "salvata".
Nel 1953 Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, Grecia e gli altri firmatari del
London Debt Agreement accordarono al cancelliere Konrad Adenauer una riduzione del 50% sul debito della Repubblica Federale, all’incirca un 70% di alleggerimento per le scadenze a lungo termine. Con una moratoria per i pagamenti degli interessi. Denaro e tempo per ricostruire l’economia, nonostante i malumori della Gran Bretagna. Adenauer riuscì in questo modo a risollevare una Germania in ginocchio e, insieme a Schuman e De Gasperi, a far nascere l’Europa comunitaria. Non aveva truccato i bilanci, è vero. Ma ebbe anche il meritato credito e il giusto tempo. Non era Realpolitik, ma Grande Politica. Che guardava al futuro e – insieme ai conti – all’edificazione del bene comune. C’è di nuovo bisogno, oggi, su Atene, di quello sguardo lungo.