Si può parlare di ricostruzione dell’Ucraina già adesso, nelle stesse ore in cui le bombe dei russi continuano a precipitare distruggendo case, strade, fabbriche e centrali elettriche. Forse davvero non è troppo presto per ragionare sui cantieri che serviranno a rimettere in piedi un Paese piegato da una guerra di aggressione e di strenua resistenza che va avanti da oltre quindici mesi e che non sembra purtroppo avvicinarsi alla fine. Chi è sul campo racconta che c’è già molto da fare e qualcosa è anche stato fatto. A Kiev, Bucha, Irpin come in altre città devastate dall’artiglieria russa ma ormai lontane dalla zona calda del conflitto si moltiplicano i lavori per riparare i danni.
E nessuno sa esattamente che cosa è accaduto e accade nell’altra parte del “fronte”. Nella parte ancora e sempre ucraina ci sono condomini che sono già stati sistemati e dove gli abitanti possono rientrare per assaggiare quello che potrebbe essere un anticipo del ritorno alla normalità. Serve anche a questo, parlare di ricostruzione: a sostenere la speranza che a un certo punto la pace arriverà. A offrire, quando possibile, almeno un pezzo di normalità quotidiana. A partire dalle case, le scuole, gli ospedali.
Per fortuna non tutti in un Paese in guerra devono stare al fronte. La determinazione con cui gli ucraini vogliono ricostruire il loro Paese non toglie però alle conferenze sulla ricostruzione dell’Ucraina organizzate nelle capitali europee un’aria istintivamente un po’ sgradevole. Vale per l’appuntamento di Roma di mercoledì, così come per l'analoga conferenza organizzata a Berlino lo scorso ottobre e a Parigi a dicembre. Nonostante le evidenti buone intenzioni dei partecipanti, la generosità con cui si promettono fondi pubblici europei per aiutare gli ucraini e la nobiltà dell’obiettivo finale, queste riunioni restano anche, e soprattutto, grandi convegni d’affari. I soldi in gioco per ricostruire l’Ucraina sono tantissimi: si parla di oltre 400 miliardi di dollari in dieci anni, soldi che saranno messi a disposizione da organizzazioni internazionali, governi, donatori individuali.
A febbraio a Varsavia la prima fiera Rebuild Ukraine ha avuto un successo tale che già se ne sta organizzando un’altra per il prossimo novembre. È naturale che le imprese di mezzo mondo vogliano avere la loro parte in questo cantiere epocale, soprattutto se (com’è il caso di tanti grandi gruppi italiani) hanno la capacità e le competenze per fare lavori che potremmo definire “a regola d’arte”. Ma sembra presto lo stesso. O meglio: c’è l’impressione che ci sia troppa fretta da parte dei governi e delle imprese, troppa paura di non essere pronti per primi, di non aggiudicarsi gli appalti quando arriverà il momento. Il fermento che si è visto anche alla conferenza di Roma sulle grandi opportunità di business offerte dalla ricostruzione dell’Ucraina stride con la fiacchezza dell’impegno internazionale per aprire un negoziato di pace. In troppi sono convinti che con la fornitura di armi sempre più potenti a Kiev si stia facendo abbastanza.
Vista dall’Italia tutta questa attenzione alle opportunità da cogliere in terra ucraina ha anche aspetti tragicomici. Mercoledì, mentre al Palazzo dei Congressi politici e imprese alla Conferenza Bilaterale sulla Ricostruzione dell’Ucraina ragionavano su queste grandi possibilità, in Senato e alla Camera il ministro Raffaele Fitto spiegava ai parlamentari perché stiamo facendo così fatica ad avviare e completare i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Anche qui si tratta di cantieri da aprire e di un Paese da rilanciare, dopo i disastri causati non dalla guerra ma della pandemia (se l’Europa ha chiamato il suo fondo Recovery Fund è proprio perché l’economia ha bisogno di recover, di riprendersi). Abbiamo presentato piani per infrastrutture, scuole, energia verde, anche edilizia residenziale.
Non riusciamo ad arrivarci in fondo e ora è incerta la sorte delle prossime due rate dei fondi europei, da 16 e 19 miliardi di euro. Come spesso accade l’entusiasmo per le cose scema con il passare del tempo, ma sarebbe folle dimenticare che i 235 miliardi di euro del Pnrr sono l’Opportunità, l’occasione unica e colossale di ridare slancio a un’economia che da quasi trent’anni non sa tenere il passo del resto d’Europa.
Forse possiamo fare tutto: partecipare con un ruolo da protagonisti alla ricostruzione dell’Ucraina e anche completare con successo tutti i progetti del Pnrr. Non sono necessariamente opzioni alternative. Portare avanti per bene i cantieri di casa nostra è però l’evidente priorità, il modo migliore di cogliere davvero le grandi opportunità della storia e dimostrare al mondo che sappiamo farlo. Distrarsi pensando già alla prossima chance, perché sull’ultima non stiamo andando poi tanto bene, è un’assurdità che l’Italia non può permettersi.