Caro direttore,
la Chiesa italiana sta vivendo in questi giorni un importante appuntamento spronata da papa Francesco e dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti. A Cagliari durante la Settimana sociale dei cattolici si tireranno le fila di una lunga e articolata riflessione e verifica sul tema del lavoro. È una scelta importante e penso che vada colta anche per alimentare il dibattito politico e culturale. Veniamo da un secolo molto contraddittorio in cui si è accettato uno scambio: da un lato dando ampia autonomia e forza alla finanza a cui è stato affidato il compito di garantire la crescita; dall’altro promettendo un forte sostegno ai consumi.
Si è passati da un sistema incentrato su capitaleproduzione- salari a uno incentrato su finanza e consumi. Le politiche pubbliche in quasi tutti i governi occidentali hanno incentivato questo scambio, liberalizzando la finanza e favorendo l’indebitamento. I numeri sono implacabili e basta vedere i dati sulla crescita dei valori degli scambi finanziari, quelli sulla crescita del debito pubblico e quelli sul debito delle famiglie a decorrere dal 1990. Lo schema applicato è il seguente: la finanza fa crescere i redditi di pochi e la rendita, il welfare redistribuisce (con sempre meno effetti) e il debito pubblico cresce per mantenere questo equilibrio. Papa Francesco ha più volte parlato della 'cultura dello scarto'.
Ossia della emarginazione di fette di umanità sempre più ampie tenute fuori nelle nostre società dalle dinamiche economiche perché non utili ai fini della finanziarizzazione dell’economia. La somma degli 'scarti' ha aperto una nuova questione sociale che ha caratteristiche ancora più radicali della precedente. Le diseguaglianze in occidente sono tornate a livelli più alti degli inizi del ’900 e le politiche di welfare non sono state in grado di garantire i risultati del passato anche perché il debito pubblico nel frattempo, soprattutto in Europa, era cresciuto notevolmente per sostenere i consumi. Che cosa fare per poter rovesciare questo declino? Per troppo tempo i governi hanno inseguito una scorciatoia pensando che curando le malattie del capitalismo si sarebbe arrivati automaticamente alla giustizia sociale.
Forse una soluzione – secondo la visione della Dottrina sociale della Chiesa rilanciata con vigore, tra gli altri, da Mauro Magatti – è«cambiare il paradigma», mettendo al centro dell’azione politica due concetti fondamentali: bene comune e persona. Lo sviluppo della dignità della persona – concetto di cui è così ricca la nostra Costituzione – ha bisogno di un contesto sociale in cui i diritti e i doveri di ciascuno sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa. Sostenibilità, ecologia, solidarietà, servizi pubblici, rispetto per i beni pubblici devono diventare princìpi-guida nella difficile ricerca del nuovo equilibrio sociale.
Non è più la redistribuzione (correzione del capitalismo) lo strumento per raggiungere la giustizia sociale, ma la condivisione e la crescita reciproca, delle persone, delle famiglie, delle aziende, degli Stati. Se la dignità della persona si sviluppa in un contesto fecondo vanno subito abbandonate le rivendicazioni individualiste (reddito e ricchezza) e vanno sostenute proposte che accrescono la qualità della vita di tutti. Dal punto di vista concreto vanno sposate le misure che consentono la valorizzazione del lavoro e il miglioramento del benessere sociale.
Ma va ideato e realizzato un vero progetto sociale alternativo a quello che è stato proposto dopo gli anni 90, sul lato del welfare, su quello fiscale e anche sul lato degli investimenti. Occorre, per esempio, dire chiaramente che non è utile puntare a modelli assistenzialisti universali che attraverso il sistema dei trasferimenti riconoscano un reddito garantito se non per le persone che sono al di sotto della soglia di povertà. Il lavoro non il reddito – come espressamente indicato nella nostra Costituzione – è l’elemento centrale per lo sviluppo della dignità della persona e le soluzioni politiche devono raccogliere questo principio fondamentale e renderlo esigibile.
Perché il lavoro è utile. Anche la pressione fiscale potrebbe essere diversificata a seconda della tipologia dei beni prodotti e acquistati: i 'beni sociali' potrebbero avere una aliquota più bassa dei 'beni individuali'. Insomma, andrebbe disegnato un nuovo patto che regoli la contribuzione fiscale di ciascuno in base al disagio/vantaggio che crea agli altri. Occorre, infatti, alzare il livello della condivisione dei benefici del lavoro e della globalizzazione mettendoli a disposizione di tutti non sotto forma di reddito pro-capite, ma sotto forma di qualità della vita e di opportunità di crescita della comunità.
*Sottosegretario alla Semplificazione e alla Pubblica Amministrazione