Sono un prete e nei giorni scorsi sono riuscito a entrare in una casa di riposo dove dai familiari era stato richiesto il sacramento dell’Unzione a un infermo grave. Per giustificati motivi di sicurezza ho avuto accesso al solo atrio del piano terra, dove mi hanno misurato la temperatura e fatto indossare guanti e mascherina. È lì che quel fratello anziano mi è stato portato, seduto in sedia a rotelle. Oltre al nipote, a rigorosa distanza di sicurezza erano presenti anche due operatrici sanitarie e il medico, che hanno partecipato al rito seguendo con attenzione parola per parola. Non mi sarei mai aspettato la reazione della dottoressa che, nel congedarmi, commossa fin nel profondo e con le lacrime agli occhi, indicando con l’indice i piani superiori, mi ha chiesto: «Padre, pensi anche a noi e a tutti i nostri ospiti. Ne abbiamo tanto bisogno!».
Quanto accaduto lo custodisco gelosamente nel cuore perché è pagina di Vangelo, scritta da apostoli del nostro tempo, che interpella e provoca una riflessione specie in chi come me abita in una città, Trieste, dove quasi un terzo della popolazione (precisamente il 28,2%) ha più di 65 anni e vive, in notevole parte, in case di riposo. Per di più, proprio in questi giorni, sta crescendo a livello nazionale, e tra anche motivati clamori mediatici e giudiziari, il timore per le persone accolte in queste strutture, tanto che si parla di oltre 300mila anziani a rischio.
Il mondo delle case di riposo, in realtà, è un’emergenza nell’emergenza che tocca almeno tre ambiti. L’ambito familiare, per tutti quei nuclei che si ritrovano “costretti” a separarsi da un loro membro anziano o disabile (e spesso in entrambe le condizioni) perché politiche sociali e modelli prevalenti economico-lavorativi non considerano prioritario il sostegno in varie forme alle famiglie e le svantaggiano. L’ambito prettamente sanitario, oggi più che mai attuale, e che motiva l’urgente richiesta a chi di competenza di interventi che garantiscano la sicurezza agli ospiti, agli operatori socio-sanitari e al personale tutto. E, infine, l’ambito umanitario. In una delle Messe da Santa Marta di questo tempo pasquale, papa Francesco ha invitato a pensare «alla paura degli anziani soli in casa o nelle case di riposo, che non sanno cosa accadrà». Se siamo confusi e messi alla prova noi che siamo in salute, figuriamoci persone fragili e già provate dalla vita come loro, che per giustificati motivi si trovano anche a non poter ricevere visite dai propri parenti e a non essere assistite dal personale volontario che tante volte fa loro passare ore liete di compagnia; proviamo solo a immaginare l’aggravarsi del senso di solitudine che porta, talvolta, a quella “stanchezza” e a quella rassegnazione che sono la perdita del senso, dello scopo per cui vivere.
Anche su questo fronte qualcosa di decisivo va fatto. Il 25 marzo scorso ancora il Papa ci aveva ricordato che «la vita che siamo chiamati a promuovere e a difendere non è un concetto astratto, ma si manifesta sempre in una persona in carne e ossa... Ogni vita umana, unica e irripetibile, vale per sé stessa, costituisce un valore inestimabile.
Questo va annunciato sempre nuovamente, con il coraggio della parola e il coraggio delle azioni. Questo chiama alla solidarietà e all’amore fraterno per la grande famiglia umana e per ciascuno dei suoi membri». Nell’impossibilità ad andare a trovare i nostri cari, siano essi segregati in casa o ricoverati in struttura, quali dunque le strade percorribili anche in questo tempo emergenziale per stare al loro fianco e rendere la solitudine feconda e solidale? È una domanda che mi pongo e che, al di là di qualche telefonata a chi vive queste situazioni, mi sollecita e interpella tutti
È una domanda che trova risposta, oggi più faticosa per la “clausura” che siamo tenuti a vivere, in tutte quelle reti informali, costruite “dal basso”, che consentono a persone sole e fragili di continuare a vivere nella propria casa o comunque in case che possano sentire come proprie. È importante, insomma, saper dire “grazie” a chi lo merita per l’impegno profuso nella lotta contro la pandemia ed è importante rispettare il fondamentale #iorestoacasa del tempo presente, ma lo è altrettanto chiedersi come ci prepareremo ad accompagnare e vivere il “dopo”. Perché sia qualcosa di più di un ritorno a una normalità che, anche se fingiamo di non saperlo, ha fatto sistematicamente rima con la vulnerabilità dei più anziani e deboli. E che può e deve far rima con nuova solidarietà.