Aleppo è stata uccisa da una guerra combattuta tra case, monumenti, ospedali. Una lunga agonia: dal luglio 2012. Il tempo è passato senza pietà, straziando la vita degli uomini e delle donne figli di questa città speciale, antichissima, e cosmopolita. Nessun attore del conflitto ha avuto la forza o l’intelligenza di trovare la strada per metter fine a questa follia. Tutti erano (e sono) aggrovigliati in una ragnatela d’interessi contrastanti. Il tempo è passato e ad Aleppo si è continuato a combattere. Il dramma è durato quattro lunghi e terribili anni – anzi quattro e mezzo – in cui ogni giorno ha portato la sua dose di morte, dolore, sofferenza e fame. Aleppo è il simbolo d’una guerra assurda, quella in Siria che ha causato più di 600mila morti e milioni e milioni di sfollati. Ricordo le obiezioni sciocche quando lanciai l’appello Save Aleppo nel 2014. La più assillante: "Perché solo questa città?". Perché Aleppo è il simbolo e la realtà più amara di questa guerra folle e, come ci ricorda incessantemente papa Francesco, di ogni follia guerresca.
Non si è fatto nulla o davvero poco e con scarsa determinazione per la pace e per Aleppo. Oggi, la città giace disfatta, sventrata, violata: un tempo abitata da quasi due milioni di abitanti (di cui 300.000 cristiani), città dell’incontro, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, testimone di una lunghissima storia e di una grande civiltà. L’hanno distrutta e non ritornerà mai più quella che era. Era la città-simbolo del vivere insieme per secoli, anche nei momenti più duri della sua storia. Vivere insieme era scritto nelle sue radici ed era l’anima del suo popolo. Città della moschea, della chiesa e della sinagoga: città del suk, del mercato, dell’incontro e dello scambio.
Quale sarà il futuro? Non ricomincerà facilmente la vita insieme in Siria. Del resto, Daesh è tornato sulla scena in forma aggressiva. Mentre le truppe di Assad conquistavano Aleppo, Daesh riprendeva Palmira, lo scrigno archeologico nel deserto siriano (la cui liberazione era apparsa una svolta nella guerra). Si combatterà ancora, purtroppo. E poi ci sono abissi di diffidenza. Molti non si fidano del regime e dei suoi alleati. L’hanno detto chiaramente dalla rivolta dal marzo 2011. L’abisso si è allargato tra governo e popolo con tanti morti, scomparsi e torturati. Tanti sono fuggiti, alcuni costretti dalla guerra, ma altri rifiutando di vivere in questa Siria. I cristiani si sono sentiti rispettati e protetti solo da Assad o hanno lasciato il Paese. Questo governo oggi è meno che mai in grado di unificare il Paese, ma terrà nelle sue mani la Siria "utile", quella delle città e delle regioni che gli interessano.
Non è facile trovare una via d’uscita, tanto profondi sono gli odi e tanto divisi i vari attori siriani e internazionali. Manca, innanzi tutto, la coscienza che quanto avvenuto in Siria negli ultimi cinque anni è stato uno scandalo per l’umanità, il punto più basso - o uno dei punti più bassi? - della storia dal 1945. Credere questo dovrebbe spingere a soluzioni che riportino un po’ di umanità in Siria. Il nuovo presidente americano e, con lui, tutti gli attori internazionali devono responsabilizzarsi decisamente di fronte a una guerra che rischia di perpetuarsi.