A un certo punto il prezzo dei carburanti era salito a un livello tale che il governo, non trovando una soluzione rapida per fermarlo, ha usato l’Eni per dare un po’ di sollievo agli automobilisti: la compagnia controllata dal Tesoro si è messa a vendere benzina e gasolio sotto costo nei fine settimana estivi, con un taglio di venti centesimi di euro al litro che le è costato più o meno 150 milioni di euro. Sembra un’era fa e invece era solo
l’estate del 2012, quella del
petrolio attorno ai 120 dollari al barile e della verde non lontana dai 2 euro a litro. Emergenze di altri tempi: la frenata dell’economia globale combinata al boom degli idrocarburi estratti dagli scisti negli Stati Uniti e alla competizione per non perdere quote di mercato tra gli esportatori di oro nero ha
fatto precipitare le quotazioni fin sotto i 30 dollari al barile, ai livelli più bassi da più di un decennio. Ci siamo abituati molto rapidamente a convivere con il greggio a basso costo. Ora è arrivato il momento di capire se sapremmo gestire le conseguenze di una sua risalita. Per il momento è solo un’ipotesi o, meglio, una speranza dei Paesi che vivono di petrolio. Mercoledì ad Algeri i ministri dei grandi esportatori, le quattordici nazioni riunite nel cartello dell’
Opec, per la prima volta dal 2008 si sono trovati d’accordo sulla necessità di
tagliare la produzione per permettere al prezzo di risalire. Si sono dati l’obiettivo di ridurre i barili di petrolio messi sul mercato ogni giorno dai 33,2 milioni di agosto a una quantità compresa tra i 32,5 e i 33 milioni. La notizia dell’intesa – decisamente imprevista – ha fatto schizzare le quotazioni del greggio di quasi il 6%, riportando il Wti americano e il Brent europeo vicini ai
50 dollari al barile. Una fiammata che sembra essersi esaurita già ieri, perché tra le intenzioni e le azioni pratiche c’è sempre una certa distanza, che può essere chilometrica nel caso dei Paesi dell’Opec. Non solo perché il mancato rispetto delle quote di produzione a cui i membri del cartello si impegnano è la norma, ma anche perché al vertice di Algeri non sono stati concordati i dettagli su chi dovrà effettivamente stringere i rubinetti dei pozzi, rimandando la decisione alla riunione di Vienna di fine novembre. Considerato che nessuno sembra intenzionato a perderci e che l’ostilità tra
Arabia Saudita e
Iran — rispettivamente primo e terzo produttore dell’Opec — è ai livelli di guardia l’accordo non sembra dei più agevoli. Non solo: negli
Stati Uniti i padroni degli impianti di estrazione degli idrocarburi da scisti non aspettano altro che un ritorno delle quotazioni sopra i 50 dollari a barile per tornare a lavorare a pieno regime senza rimetterci e questo spingerebbe di nuovo il prezzo verso il basso. Insomma: non è detto che questa era del barile economico sia giunta al termine, ma oggi la prospettiva di confrontarsi con quotazioni più vicine ai 70 che ai 40 dollari è comunque più realistica di un paio di settimane fa. Può darsi che sia un bene. La caduta del prezzo del petrolio iniziata nell’estate del 2014 aveva creato grandi aspettative di crescita economica in Europa e Stati Uniti sulla base di un ragionamento elementare: se possiamo spendere meno per comprare il greggio, che resta il carburante fondamentale delle nostre economie, avremo più soldi per spingere il Pil. Le imprese potranno risparmiare sui costi di produzione mentre il costo di benzina e bollette peserà meno sui bilanci famigliari. A perderci, in questo ragionamento, sarebbero solo i Pesi esportatori, cioè nazioni come l’Arabia Saudita, l’Iran o gli Emirati, non proprio nazioni che ispirano una naturale solidarietà.
Il risparmio atteso, in effetti, c’è stato. Calcola l’Unione Petrolifera che la cosiddetta 'fattura energetica', cioè la spesa che l’Italia sostiene per importare elettricità e la materia prima per produrla, nel 2015 è crollata di 10 miliardi di euro rispetto all’anno prima (-22,7%), scendendo a 34,5 miliardi, nonostante il consumo di energia sia aumentato del 3,2% e l’euro abbia perso valore rispetto al dollaro. Più dell’80% di questo risparmio deriva direttamente dal calo del petrolio.
La crescita del Pil, però, si è vista appena. Vale per l’Italia, ma anche per l’Europa e, almeno in parte, per gli Stati Uniti. Che
il crollo del petrolio non abbia dato una spinta significativa alla crescita globale è stata «una delle più grandi
sorprese economiche del 2015» ha scritto tracciando un bilancio dell’anno passato Kenneth Rogoff, uno degli economisti più influenti dei nostri anni. Le varie istituzioni che avevano prospettato effetti potenti e positivi dalla caduta del barile si sono adoperate per capire che cosa è andato storto. Nel bollettino di aprile la Banca d’Italia ha sintetizzato le risposte più accreditate a livello internazionale. La prima sta nelle cause della caduta del barile: se il petrolio si svaluta perché c’è un eccesso di offerta gli effetti della discesa del prezzo sono positivi per le economie dei Paesi importatori,
se invece il prezzo scende perché è la domanda a diminuire non c’è nessun beneficio per il Pil. Nel caso del calo tra il 2014 e il 2015 gli osservatori concordano nel ritenere che circa un terzo della discesa del prezzo del petrolio si spieghi con una diminuzione della domanda globale, soprattutto a causa della frenata cinese, mentre due terzi derivano dall’abbondanza dell’offerta. Poi c’è l’effetto collaterale negativo delle difficoltà che il crollo del barile porta ai paesi esportatori. Perché i soldi che le nazioni ricche di petrolio incassano vendendo oro nero tornano in parte in Europa sotto forma di acquisti. Mercati come gli Emirati arabi o la Russia in questi anni sono diventati centrali, per esempio, per le aziende del lusso e delle costruzioni Made in Italy, che infatti con la caduta del barile hanno visto diminuire anche gli ordini dall’estero. C’è infine un problema di investimenti. La società di analisi petrolifera Wood Mackenzie ha stimato che il crollo del prezzo del petrolio ha bloccato progetti di investimento in pozzi ed esplorazioni per 380 miliardi di dollari. In un’economia globale che oggi si trova a corto di grandi investimenti questo buco si è fatto sentire. Facendo un bilancio, le simulazioni della Banca d’Italia dicono che, per il 2015, la svalutazione del petrolio ha avuto effetti positivi per lo 0,6% del Pil (soprattutto grazie al risparmio di famiglie e imprese) ma nello stesso tempo la flessione del commercio internazionale che quella caduta ha frenato il Pil dello 0,3%. In definitiva l’effetto del petrolio a basso costo sulla crescita italiana è stata di un non entusiasmante +0,3%. Altrove è andata peggio. La Banca centrale europea, che ha ripetuto l’esercizio a livello mondiale, calcola che l’impatto della caduta del prezzo del greggio sulla crescita globale sia stato vicino allo zero, se non leggermente negativo. Per Francoforte il petrolio a basso costo è stato fino ad oggi un grosso problema, nonché il primo ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo di un’inflazione vicina al 2% previsto dal mandato della Bce: da quando la banca centrale ha il compito di tenere l’indice dei prezzi vicino a quella soglia non ci è mai riuscita senza il contributo dei costi dell’energia. Nonostante tutti i suoi poderosi sforzi monetari, insomma, la Bce non sembra in grado di riavvicinare l’inflazione al 2% se i costi dell’energia non saliranno almeno altrettanto. Nella sua storia la banca centrale non ci è mai riuscita. Non è un problema solo monetario: difficilmente in Europa investimenti e crescita potranno ritrovare slancio finché i prezzi rimarranno asfittici, indebolendo per le aziende ogni prospettiva di fare utili puntando su qualcosa di nuovo. Così Mario Draghi, e i governi europei assieme a lui, oggi si trovano nella strana situazione di dovere sperare che a novembre quella variegata associazione di sceicchi, leader africani, sudamericani e asiatici chiamata Opec riesca a mettersi d’accordo e spingere un po’ più in su la quotazione del vecchio oro nero. A quanto pare un barile a prezzi 'ragionevoli' serve a noi, non solo a loro.