«Ogni persona che passa nella nostra vita è unica. Sempre lascia un po’ di sé e si porta via un po’ di noi. Ci sarà chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita e la prova evidente che due anime non si incontrano per caso». Queste parole di Jorge Luis Borges mi sono tornate in mente in questi giorni, incontrando gli studenti di alcune scuole. Le ho richiamate per esemplificare l’incontro tra me e la figura di padre Pino Puglisi, 'tre P', come lo chiamavano gli amici. E le ho ribadite per invitare ad
andare a lezione da tre P, a impararne il metodo che ne ha fatto una persona coerente e umanissima, capace d’incidere profondamente, di lasciare una traccia nei cuori e nel territorio. Questa persona unica, don Pino, mi ha lasciato il desiderio d’interrogarmi – anche come Pastore – sul
mysterium iniquitatis ancora presente in questo nostro contesto postmoderno, a livello socioculturale, locale, nazionale e internazionale, in cui il Nemico continua a seminare la zizzania ed essa continua a crescere e, talvolta, soffoca il buon grano, da cui il Maestro dei Vangeli ci ricorda che dovrebbe invece provenire la farina e, con il sale e il lievito, il saporito pane. Quali strumenti abbiamo per combattere la zizzania? Don Pino, dichiarato dalla Chiesa «martire della fede», ci ha insegnato un vero e proprio
metodo pastorale, non soltanto per arginare e prevenire l’infestazione mafiosa, ma per far crescere positivamente il buon grano del Vangelo, a partire dai ragazzi. Dopo l’Angelus del 26 maggio del 2013, papa Francesco sintetizzò così questa sua lezione: «Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto. Io penso a tanti dolori di uomini e donne, anche di bambini, che sono sfruttati da tante mafie, che li sfruttano facendo fare loro un lavoro che li rende schiavi, con la prostituzione, con tante pressioni sociali». Se ha vinto Puglisi, vincerà chi segue il suo metodo, che altro non è che l’annuncio mite e ordinario del
Vangelo della tenerezza. Don Pino mette in opera dei fatti concreti (cenacoli del Vangelo, predicazione continua, campi estivi, missioni popolari, letture formative costanti, azione religiosa e sociale di prevenzione, accompagnamento delle giovani coppie, educazione al perdono e alla riconciliazione, insomma evangelizzazione e promozione umana ), che furono, e possono ancora essere, un vero e proprio antidoto silenzioso ed efficace per combattere la mala pianta. Fatti che mettono in crisi la cattiva semina. Il metodo Puglisi s’impegna «per», cioè a favorire la giustizia sociale e la dignità umana. Sbaglierebbe, dunque, chi cercasse un prete «contro» o un prete-antimafia, magari per teorizzare una Chiesa finalmente né contigua alla mafia, né silente. Il parroco di Brancaccio è il frutto migliore di un processo di bonifica del campo, curato e riportato al suo splendore al culmine di una ricostruzione iniziata, già a metà secolo XX, nelle Chiese del Sud ed estesosi a tutta la Chiesa italiana, sollecitata anche dal magistero pontificio. E tutto questo fa male, veramente male, non soltanto alle piante della zizzania, ma al loro seminatore: il Nemico stesso, che ha paura della testimonianza nuda e cruda della fede. Si tratta di comprendere il
linguaggio della profezia di Puglisi, come suggeriva Mario Luzi nel suo testo teatrale del 2003 sulla morte del beato, Il fiore del dolore. Se è vero il nostro incontro con Puglisi e il suo messaggio di vita, allora andiamo idealmente tra i banchi di scuola a lezione da lui per ascoltare, dalla sua viva voce, la più bella pagina di vangelo da lui vissuta: il martirio. *
Arcivescovo di Catanzaro Squillace e postulatore della causa di canonizzazione del beato Pino Puglisi