mercoledì 4 maggio 2016
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E ugenio Danese era il direttore de 'Il Tifone' un settimanale sportivo satirico romano. Era a Lisbona, il 3 maggio del 1949 e aveva seguito l’amichevole fra Benfica e Torino. Doveva rientrare con l’aeroplano della squadra ma lo perse a causa di un contrattempo. C’è chi dice per scaramanzia, chi racconta che si attardò per acquistare un cappello per sua moglie. Fu lui, fra le lacrime, a dare l’annuncio radiofonico della tragedia e nei giorni successivi fece uscire sul suo giornale un titolo a nove colonne, che ancora oggi fa venire i brividi: «Non credevamo di amarli tanto». Già. Non credevano di amarli tanto i cinquecentomila abitanti di Torino che avevano assediato uno dei palazzi più belli della città, Palazzo Madama. Una folla immensa, gente arrampicata ovunque: sui tetti, sulle mansarde di Piazza Castello, sui lampioni stradali, sui tram. Cinquecentomila torinesi su seicentomila abitanti erano lì, a rendere omaggio allo sfilare lento e struggente, a due a due, dei feretri di quei ragazzi che da quella trasferta non sarebbero tornati mai più. Non pensavano di amarli tanto i loro avversari, che li avevano visti dominare sui campi da gioco, capaci di travolgere chiunque nell’ultimo quarto d’ora, al semplice segnale del capitano, Valentino Mazzola che si tirava su le maniche della maglia granata scatenando, con quel rituale, quello che il maestro Gianni Brera definì «tremendismo». Non pensavano di amarli tanto coloro che in città, sentirono quel rumore. Chi oggi può raccontare, quel 4 maggio di 67 anni fa era un bambino, al massimo un ragazzo e chi oggi può ancora raccontare quel giorno, racconta del rumore. Pioveva. Nuvole basse. Una nebbia fuori stagione. Poi, il rumore. Un boato che attraversò la città e che fece alzare centinaia di migliaia di occhi al cielo, verso la collina di Superga. Quel boato terrificante si portava via non solo una squadra, ma il simbolo di un Paese che si stava rialzando dopo la Guerra Mondiale. Quella squadra stava ricostruendo l’identità di una comunità intera che, intorno al calcio, stava rimettendo insieme i pezzi del proprio futuro, futuro che, però, sembrava schiantarsi anche lui, inesorabilmente, su una collina. Non pensavamo di amarli tanto forse neanche noi, tifosi del Toro che oggi ricordiamo le gesta di una squadra mai vista giocare e recitiamo un mantra che raccontiamo ai nostri figli la sera prima di andare a letto, recitando così, tutto d’un fiato: bacigalupoballarinmarosogrezarrigamonticastiglianomentiloikgabettomazzolaossola. Quella del Grande Torino è una fiaba apparentemente senza lieto fine ma che proprio nella fine, vive il suo inizio. Perché in realtà siamo ancora qui, a non credere di poterli amare così tanto. Siamo ancora increduli di fronte al loro essere capaci, ogni 4 maggio, di farci accapponare la pelle quando il capitano del Toro, a Superga, scandisce, recitando, i loro nomi in mezzo a tifosi, di ogni età, con gli occhi lucidi. Se la magnitudine e la grandezza dei campioni sono proporzionali alle loro capacità di farci emozionare, allora i granata del Grande Torino erano campioni assoluti. Fuoriclasse senza tempo e senza età che, 67 anni dopo la loro ultima partita, ancora nutrono di emozioni i loro tifosi. A Superga, ogni 4 maggio, era un prete salesiano, cappellano della squadra, a celebrare la santa Messa di suffragio. Questa sarà la prima volta senza don Aldo Rabino, volato via anche lui, pochi mesi fa. Don Aldo aveva 10 anni quando sentì quel rumore nel cielo di Torino. Me lo ha raccontato, quel rumore. Me lo ha fatto sentire nelle orecchie, sulla pelle, nello stomaco. Oggi quel rumore è dentro di me, anche se fuori c’è ancora più silenzio. Lo sport, come l’arte, ti cattura e si impadronisce di te grazie a un gesto, una pennellata, un dettaglio, un profumo. Tu pensi di saper gestire quel tipo di emozioni, poi arriva il suono di un pallone che rimbalza, l’odore dell’olio per i massaggi negli spogliatoi e sei fregato. Personalmente sono stato fregato da un rumore che non ho mai sentito, se non nelle parole condite con le lacrime di chi me l’ha raccontato. È dentro di me, quel rumore. Mi accompagna e mi chiede, ogni 4 maggio, di essere raccontato per poter continuare a sopravvivere. Voilà, fatto. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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