Nel gesto di cambiare il calendario c’è in questo esordio a lungo sospirato dell’anno nuovo qualcosa di ancor più simbolico del consueto: non solo il lasciarsi alle spalle mesi tribolati ma anche il desiderio – fortissimo – di aprirci al nuovo, consapevoli tuttavia che occorrerà altro tempo per scorgere veri segni di cambiamento. Sentiamo però intanto urgere alcune domande essenziali: cosa cerchiamo nel 2021? Di cosa si nutre la nostra fiducia che le cose andranno meglio? E prima di liberarcene del tutto, cosa ci ha insegnato il 2020? Servono punti fermi attorno ai quali costruire il «tempo nuovo» che comunque verrà. Abbiamo chiesto ad alcune firme care ai lettori di Avvenire di aiutarci a trovare parole portanti, come architravi affidabili. Eccole.
PERDONO. Disinneschiamo il male per attivare un nuovo inizio
In questo momento storico, in cui l’inattuale idea di perdono sembra quasi una mera utopia, la lezione etico-politica di Mandela con l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica nel 1995 suona come una iniziativa profetica sulla capacità, difficile ma necessaria, di dare corpo alla disciplina del perdono. Come si ricorderà, alla fine dell’apartheid si trattava di rimettere insieme e di affrancare gli oppressi e gli oppressori, i neri e gli afrikaner, colpevoli di una serie infinita di violenze e di persecuzioni. Creando un nuovo tipo di struttura giuridica con l’idea della "giustizia riparativa", Mandela era convinto che solo ponendo uno di fronte all’altro la vittima e il carnefice fosse possibile responsabilizzarli entrambi mediante un incontro che avrebbe generato perdono e riconciliazione. I risultati della Commissione, pubblicati il 28 ottobre 1998, segnarono un traguardo storico non solo per il Sudafrica, finalmente liberato dalla separazione sociale e dalle persecuzioni razziali, ma per il mondo intero, consapevole ormai che le armi dei conflitti possono riconvertirsi nelle giuste pratiche del riconoscimento e della pietà.
Certo, il movimento del perdono ha sempre una declinazione personale, prima che giuridica e sociale, ed è da qui che occorre partire per dare nuova linfa alle relazioni umane, talvolta sottoposte all’incomprensione e al conflitto. Perdonare un’offesa esige infatti un nuovo cominciamento, una rotazione del passato verso il futuro mediante una radicale rottura della catena dei risentimenti e dei rimorsi, delle vendette e delle ritorsioni. Se compiuto come necessaria propedeutica al riscatto del male, sembra riaprire il campo delle possibilità sinora chiuse, e prevedere la ricreazione di un nuovo evento che prima non c’era. Chi perdona disinnesca un’azione compiuta nel male, riapre le porte del futuro a chi non ne aveva più, rompe con la feroce concatenazione della storia, che però continua a riproporre la ingiusta divisione tra vittime e carnefici.
L’ambiguità del perdono – anzi, la sua insostenibilità di fronte al crimine "metafisico" di Auschwitz – continua a tormentare la coscienza morale dei sopravvissuti. È indubbio che all’interno della pratica del perdono vada distinto chi chiede il perdono e chi lo offre, chi immagina implicitamente di cancellare la sua colpa e chi dona il proprio perdono a quanti non lo chiedono nemmeno. Come scioglierne il paradosso, se da un lato "certi" crimini appaiono imprescrittibili, dunque indimenticabili, mentre dall’altro qualunque azione malvagia sembra esigere la difficile disciplina della liberazione dal male, che solo un altro che perdona può attivare? Va detto al riguardo che il perdono non ha il potere di annullare il passato, con le sue pratiche violente e con la necessaria richiesta di memoria verso le vittime, ma solo di attivare un nuovo, difficile inizio senza il quale la vita personale e sociale risulterebbe inattuabile.
La Rivelazione cristiana pretende comunque un altro difficile passo: quello che misura la pratica del perdono sotto l’ineliminabile segno della Croce. La richiesta del perdono è uscita dal grido del Crocifisso: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). La richiesta di perdono e la pratica del perdonare – le due facce di questa rischiosa e complessa dinamica interpersonale – sembrano così rimesse nelle mani di Dio, che certo non annulla né il peso della responsabilità del male né l’esigenza paradossale di dare il perdono.
«Perdonatevi scambievolmente: come vi ha perdonato il Signore, così fate voi» si legge nella lettera paolina ai Colossesi (Col 3,13), che sembra direttamente richiamarsi a quell’esigente attitudine ebraica della "imitazione di Dio": «Come l’Onnipotente è chiamato pietoso e misericordioso, siate voi pure pietosi e misericordiosi, e donate liberamente a tutti. Come il Santo, benedetto Egli sia, è chiamato giusto, siate pure voi giusti; come Egli è chiamato pio, siate voi pure pii» (Sifrè Deut 49,85a). L’imitazione di Dio è dunque la prova che si può e si deve perdonare, perché si è stati da sempre perdonati con quella grazia fondativa, scaturita – nella prospettiva cristiana – dall’evento della Croce.
Quest’ultima non annulla il peccato e la morte, ma li riconverte in una nuova energia, così che il percorso del credente, talvolta difficile e oscuro dentro il passato della colpa, può essere ancora riorientato verso nuovi inizi. La memoria degli eventi trascorsi non è certo cancellata o lasciata irresponsabilmente alle spalle, ma recuperata nella sua densità rivelativa, la cui forza può provocare un differente e credibile orientamento storico, sia personale che sociale.