Si parte finalmente dal campo profughi di Ankawa 2, a Erbil, dopo oltre due ani di attesa: Qaraqosh è finalmente libera.
Due anni e mezzo, dall'estate del 2014, fra container e reti metalliche, con una sola domanda: «Quando torniamo a casa».
Dai primi di novembre Qaraqosh è libera grazie all'avanzata dell'esercito iracheno e dei peshmerga curdi verso Mosul: in pochi, alla spicciolata, decidono di tronare a Qaraqosh, la cittadella cristiana a 20 chilometri dal fronte.
Il primo impatto, per chi in quelle strade vi è nato e cresciuto, è un tuffo al cuore: il ciglio della strada dissestato in un paesaggio spettrale.
Basta salire su un terrazzo, allargare lo sguardo sui tetti per avere la certezza: non c'è casa che non sia stata derubata.
Chi torna a casa, dopo due anni di attesa, ha solo la forza di racogliere qualche libro, fra macerie e segni del saccheggio.
Per strada solo immondizie fra strade deserte: interrotto l'acquedotto, tranciati i cavi conduttori dell'energia elettrica.
Ogni passo, nella «patria perduta», conferma la convinzione: impossibile senza sicurezza e adeguate infrastrutture anche solo tornare.
Anche la cattedrale dell'Immacolta concezione non è stata risparmiata: gli uomini del Califfato ne avevano fatto una postazione di artiglieria.
Immediato, nella memoria, scatta il paragone: la serenità del passato e la desolazione di oggi.
Anche gli interni della cattedrale non sono stati risparmiati: fumo nero di incendi e macerie.
La gioia del ritrono lascia il posto a una ferita, come il volto di questa antica statua del Cristo.
Qaraqosh, un dolore per una comunità ancora tutta da ricostrire.