Truppe statunitensi in Iraq, nell'agosto 2017 (Ansa)
Le truppe americane della coalizione anti-Daesh in Iraq hanno cominciato a ritirarsi, dopo la sconfitta del sedicente Stato islamico. Due funzionari iracheni hanno riferito che è stato raggiunto un accordo in questo senso con le autorità di Baghdad.
Contractor della base americana in Iraq confermano di aver visto che i militari hanno iniziato a lasciare il paese. Si tratta della prima riduzione di contingente dall'inizio della guerra contro il Daesh, oltre tre anni fa.
Nel discorso sullo Stato dell'Unione, la settimana scorsa, il presidente americano Donald Trump aveva rivendicato il risultato di avere cacciato il Daesh da Siria e Iraq, anche se «molto resta ancora da fare».
Un ritiro alla chetichella, ora che il Daesh almeno a Mosul e dintorni sembra definitivamente sconfitto. Solo indiscrezioni di stampa dagli Stati Uniti mentre fonti ufficiali irachene confermano un accordo per ridurre il contingente Usa per la prima volta da quando l’8 agosto 2014 gli Stati Unitisi misero alla testa dei “volonterosi” che decisero di aiutare i peshmerga curdi a fermare l’avanzata dei diavoli neri di al-Baghdadi. Se un disimpegno era più che prevedibile - secondo indiscrezioni di Baghdad dovrebbero restare sul terreno circa 4mila soldati Usa con compiti principalmente di addestramento dell’esercito iracheno - quello che si impone quasi da solo è il paragone con un altro disimpegno Usa di 13 anni fa.
Era il 1° maggio del 2003 quando il presidente George W.Bush, atterrato sulla portaerei USS Abraham Lincoln, annunciò dopo soli due mesi di operazione militare il ritiro di gran parte delle sue truppe. Sull’enorme striscione alle sue spalle, a beneficio dei media di tutto il mondo, la scritta “Mission accomplished”. Ben presto, però, quel proclama di vittoria si tramutò in un triste auspicio: lo dimostrarono, giorno per giorno, le vittime anche statunitensi della guerra civile al terrorismo nel post Saddam Hussein, che costrinserono Bush ad aumentare nuovamente il contingente Usa. Nel 2007 infatti ci fa la “surge” - nuova ondata di truppe sul terreno - nella guerra al terrorismo per poi giungere a un disimpegno semi-definitivo con Barack Obama nell’agosto del 2011. Ora dovrebbe essere ridotto ai minimi termini in Iraq quel contingente residuo di 50mila uomini, mentre ci si affretta a dichiarare chiusa pure la guerra al Daesh.
Ma a 15 anni da quell’istantanea scattata sulla Abraham Lincoln - divenuta simbolo del naufragato progetto di Bush di costruire un nuovo medio Oriente a partire dall’Iraq - resta un Paese ancora più impoverito, diviso al suo interno. Ma no solo: l’Iraq è uno degli epicentri della crisi di tutta la regione Mediorientale. Le prossime elezioni parlamentari del 12 maggio vedranno molto probabilmente confrontarsi l’attuale premier Haider Abadi con il vecchio leader Nouri al-Maliki: ma nella partita politica, come in quella militare contro il Daesh, sono entrati di prepotenza le Unità di mobilitazione popolare, le milizie sciite che rispondono prima a Teheran che a Baghdad. Un Iraq sempre più satellite dell’Iran, potenza regionale, mentre la questione del Kurdistan iracheno, solo congelata dopo il fallimento del referendum per l’indipendenza della regione autonoma voluto da Massud Barzani, ha risvegliato tensioni e visto materializzarsi i fantasmi peggiori della dittatura baathista di Saddam Hussein. Inoltre la sconfitta militare del Daesh non ha certo risolto i motivi dell’irredentismo delle terre sunnite verso Baghdad, pietra angolare, se così si può dire, del velocissimo e incontrastato affermarsi del Califfato in Iraq. E tutto questo con ai confini una guerra civile siriana che , sconfitto pure lì il Daesh, sta di nuovo mutando forma. Dopo il fallimento in Iraq lo scorso decennio, il disimpegno militare degli Usa è parallelo ad una apparente rinuncia ad una politica coerente di Washington in Medio Oriente, mentre l’unica superpotenza davvero presente in Siria pare essere la Russia di Putin. Quindici anni dopo l’Iraq cerca ancora pace.