lunedì 6 febbraio 2017
Da Google a Twitter hanno presentato ricorso. Intanto la Corte d'appello ha respinto la richiesta governativa di ripristinare il divieto di ingresso dopo lo stop del giudice di Seattle
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (Ansa)

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (Ansa)

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Nuovo colpo di scena nella vicenda del "travel ban", il temporaneo blocco dei visti per chi arriva negli Stati Uniti da 7 Paesi dell'area mediorientale voluto dal presidente Donald Trump. Una Corte d'appello americana ha respinto il ricorso del dipartimento della Giustizia contro la sentenza di un giudice federale di Seattle che rigettava il provvedimento. Resta così sospesa la norma firmata da Trump il 27 gennaio, che vietava l'ingresso negli Usa ai profughi e ai cittadini provenienti da Iran, Siria, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen e Libia. L'amministrazione Trump ha promesso battaglia con "tutti i mezzi legali" per ripristinare il divieto di viaggio, in una sfida legale che sembra destinata a finire alla Corte suprema.

Da Apple a Twitter, 97 aziende hi-tech contro il bando

Anche l'industria informatica americana leva gli scudi contro l'ordine esecutivo promulgato da Trump: ben 97 aziende di primissimo piano, operanti soprattutto nell'hi-tech, hanno presentato una memoria congiunta per denunciare l'illegittimità del provvedimento. Tra i firmatari Apple, Microsoft, Google, Netflix, Snap!, Spotify, Uber, Airbnb e addirittura Twitter, il social network prediletto dal neo-presidente Usa. Non mancano peraltro grandi aziende attive in altri settori, come per esempio Levi Strauss, produttrice tra l'altro dei celebri blue-jeans omonimi.

La corsa per entrare in Usa prima che torni il bando ai visti

Molti migranti e profughi hanno tentato di sfruttare la "breccia" per entrare negli Usa, dopo che il dipartimento di Stato ha restituito validità alla maggioranza dei 60mila visti che aveva revocato e le autorità dell'immigrazione hanno smesso di applicare il divieto.

Il braccio di ferro governo-giudici

"Vinceremo questa battaglia", ha promesso il vice presidente Mike Pence, intervenendo a Fox News. "Continueremo a usare tutti i mezzi legali a nostra disposizione per sospendere l'ordine" del giudice che ha bloccato il bando, cioè il giudice federale di Seattle, James Robart. Poche ore prima delle sue dichiarazioni, la Corte d'appello del nono distretto, con sede a San Francisco in California, aveva dato la brutta notizia alla Casa Bianca, respingendo la richiesta di ripristinare il divieto, bloccato dalla notte di venerdì. Quando, cioè, il giudice Robart aveva imposto provvisoriamente lo stop, per analizzare a fondo l'ordine esecutivo. Sabato notte l'amministrazione Trump ha iniziato il processo di ricorso, con una richiesta alla Corte d'appello di ripristinare il veto. Questa però ha rifiutato e lasciato in vigore la decisione del giudice, che ha aperto di nuovo le porte del Paese a milioni di immigrati e profughi. Il tribunale ha anche chiesto che la parte contraria al veto, cioè Stati di Washington e Minnestona, presentino argomenti a favore della loro posizione prima delle 23.59 di domenica (le 8.59 italiane di lunedì), e al governo di Trump che faccia lo stesso prima delle 15 di lunedì (la mezzanotte in Italia). Trump ha criticato duramente il magistrato che ha sospeso il bando, chiamandolo "presunto giudice". Pence ieri ha cercato di correggere il tiro, dicendo che Robart "certamente" ha l'autorità per pronunciarsi sul caso, sebbene sia "frustrante" che interferisca con le decisioni presidenziali in materia di politica estera e sicurezza. "Il presidente degli Stati Uniti ha tutto il diritto di criticare gli altri rami del governo. Abbiamo una lunga tradizione in questo nel nostro Paese", ha dichiarato a Nbc News.

A decidere sarà probabilmente la Corte Suprema

Il governo di Trump intende eseguire la richiesta della Corte d'appello, invece di ricorrere direttamente alla Corte suprema. Lo ha spiegato un portavoce del dipartimento di Giustizia, Peter Carr: si preferisce "lasciare che si sviluppi il processo d'appello". Tuttavia, gli esperti sono concordi sul fatto che, succeda quel che succeda in questo tribunale, il caso finirà con tutta probabilità alla Corte suprema, attualmente divisa fra quattro giudici conservatori e quattro progressisti. Trump ha infatti nominato pochi giorni fa un nuovo giudice, il conservatore Neil Gorsuch, ma non è detto che il Senato approvi la nomina prima che il caso arrivi alla massima istanza della giustizia.

6 Stati Usa si schierano con il ricorso di Washington D.C e Minnesota

Sono 16 gli Stati Usa - tra cui quello di New York e la California - che hanno presentato presso la corte di appello di San Francisco un documento in cui si schierano contro il bando sui musulmani di Donald Trump e a favore della causa intentata dagli Stati di Washington e del Minnesota. La decisione della corte d'appello sull'abrogazione o meno del decreto è attesa nelle prossime ore. Gli Stati di Washington e Minnesota affermano che il decreto sia incostituzionale, perché provocherebbe discriminazione contro una religione, quella musulmana. Fatto proibito dal primo emendamento della Costituzione. Tuttavia Trump ha evitato di menzionare la religione nel suo ordine esecutivo, e questo fatto, unito all'autorità che il sistema legale americano conferisce al presidente su politica esterna e migratoria, potrebbe giocare a favore dell'inquilino della Casa Bianca.

I gesuiti di Canada e Usa: attacco ai valori americani e cristiani

"In qualità di membri di un ordine religioso a livello mondiale che opera per formare uomini e donne di coscienza e compassione, denunciamo l'ordine esecutivo dell'amministrazione Trump che sospende ed esclude i rifugiati e mette al bando i cittadini di 7 Paesi come un affronto alla nostra missione e un attacco ai valori americani e cristiani". È la dichiarazione, pubblicata oggi, della Conferenza dei Gesuiti del Canada e degli Stati Uniti sull'ordine esecutivo dell'amministrazione Trump su immigrazione e rifugiati.

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