Trump, l'anno vissuto pericolosamente
sabato 20 gennaio 2018

Non si può dire che in un anno alla Casa Bianca lavoro non ne abbia creato. Soprattutto per cronisti e commentatori, che ogni giorno hanno avuto solo l’imbarazzo della scelta. Dal tweet quotidiano scritto all’alba americana fino alle dichiarazioni di portavoce o collaboratori, smentite poco dopo dal presidente stesso, sempre con le maiuscole che contraddistinguono i suoi pensieri elettronici in poche decine di caratteri.

Donald J. Trump, bisogna ammetterlo, ha messo a segno diversi record. Primo fra tutti l’aver celebrato il primo 'compleanno' alla Casa Bianca con la sconfitta in Senato e la dichiarazione di 'shutdown', la progressiva paralisi amministrativa. E, come ogni bravo candidato, in campagna elettorale di promesse ne ha fatte tante, sempre tese a cancellare l’opera di chi lo aveva preceduto: Barack Obama. Ma finora una delle poche che è riuscito a mantenere è la riforma delle tasse la quale favorisce obiettivamente i ricchi e altrettanto obiettivamente ha di fatto innescato un virtuoso meccanismo redistributivo che contribuisce a creare posti di lavoro. Non senza nuovo debito pubblico... Per il resto, l’'America first', prima di tutto e di tutti, dei suoi discorsi più accorati resta ancora difficile da intravedere. Tra gaffe e smentite, prendiamo ad esempio la politica estera. Trump ha riacceso il principale focolaio di tensione in Medio Oriente, rendendo operativo il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, con l’impegno di trasferirvi l’ambasciata di Washington. Con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un è riuscito a innescare un’escalation verbale che promette ben poco di buono tra gli Stati Uniti e un Paese che possiede testate nucleari. Con l’Iran il capo della Casa Bianca sta tentando di annullare l’accordo raggiunto dal suo predecessore sullo sviluppo pacifico del programma atomico, sposando appieno le tesi, inascoltate per anni, di israeliani e sauditi. In Siria Trump ha alzato bandiera bianca con i russi, cambiando almeno quattro volte idea sulle sorte di Bashar el-Assad. Con Cuba sta tentando di fermare l’inevitabile eppure troppo rallentato processo di disgelo e innescato dal primo presidente afroamericano e dall’altro Castro, Raul. Sul clima, infine, ha deciso di 'ballare da solo', annunciando luscita dall’accordo di Parigi. E ci si potrebbe fermare qui. Senza nemmeno citare la chiusura ai migranti, l’espulsione dei 'Dreamer' che ha innescato la reazione dei democratici o i vari 'bandi' ai musulmani.

Ma, parafrasando il tycoon newyorkese e guardando dentro quell’America che dovrebbe tornare 'prima' richiudendosi su se stessa, si deve constatare che l’immagine è a dire poco offuscata. per meno di un terzo dei cittadini mondiali gli Stati Uniti restano un Paese autorevole, faro ed esempio per gli altri. Nel resto del pianeta la fiducia è addirittura inferiore a quella riposta nella Cina, che non brilla certo per rispetto dei diritti umani… Dove Trump non ha però mancato di onorare l’impegno assunto in campagna elettorale è sul tema della difesa della vita nascente, come aveva annunciato rivolgendosi soprattutto all’elettorato cristiano che lo ha sostenuto. Venerdì, in occasione della Marcia per la vita di Washington, ha (primo presidente in 45 anni) inviato un video messaggio e dichiarato che il 19 gennaio diventerà Giornata nazionale per la sacralità della vita. Due giorni fa aveva invece rafforzato le tutele per i medici che scelgono l’obiezione di coscienza all’aborto.

Resta il fatto che mai nessuno, nel primo anno di mandato, aveva eroso come lui il proprio consenso popolare. Secondo i sondaggi, solo un americano su tre crede ancora in 'The Donald'. Perché? Il perché se anche si volesse dimenticare tutto il resto, comprese le impertinenti statistiche che calcolano le (molte) settimane trascorse in Florida, nel suo resort di Mar-a-lago, e non alla Casa Bianca, è condensato in una parola: Russiagate.

L’inchiesta su ingerenze e connivenze russe nella infuocata e (per usare un eufemismo) politicamente scorretta campagna elettorale del 2016 è ormai difficile da ignorare. Il procuratore speciale Mueller ha ormai messo un piede nel 'cerchio magico' del presidente, chiamando in causa quello Steve Bannon che è stato costretto a farsi da parte perché la sua presenza nella West Wing della Casa Bianca era ormai diventata insostenibile. Ora il kingmaker, esponente di una destra dalle visioni e dalle parole estreme, sembra pronto a vuotare il sacco. Dopo aver offerto un piccolo antipasto all’autore del libro 'Fire and Fury', ora potrebbe fare il botto con la sua deposizione. Osteggiato dalla figlia del presidente, Ivanka, e dal di lei marito, Jared Kushner, avrebbe la tentazione di rompere il giocattolo che ha creato e ha fatto entrare al 1.600 di Pennsylvania Avenue. E siamo solo al primo anno.

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