Il generale Mohamed Hamdan “Dagalo” - Reuters
Per il Sudan sarà probabilmente un 2024 di intenso conflitto. Da quando sono iniziate le violenze lo scorso 15 aprile, sono «oltre 7 milioni gli sfollati e almeno 12mila i civili uccisi» sostengono le Nazioni unite. I combattimenti più feroci si stanno svolgendo attualmente nella capitale, Khartum, e sono quasi quotidiani. «In una sola giornata sono morte a Khartoum 33 persone, vittime dei continui combattimenti – affermavano venerdì diverse fonti sul campo –. L’esercito ha bombardato alcuni quartieri della capitale sudanese durante la notte».
La maggior parte dei morti, almeno 23, sono stati colpiti dalle bombe lanciate su Soba, un quartiere a sud-est del centro della capitale dei “due Nilo”. Altri dieci civili sono invece rimasti uccisi nelle precedenti sparatorie tra le strade della città. Come previsto da molti analisti agli albori di questa guerra, in Sudan la pace sembra ancora molto lontana. I diversi tentativi di negoziato continuano a fallire. Ci hanno provato tutti: Stati uniti, Turchia, Arabia Saudita, Kenya. Ma le violenze non si fermano. I due generali, un tempo alleati, hanno giurato di combattere fino a quando l’avversario sarà arrestato o ucciso.
Dopo aver perso meno di un mese fa un’importante località strategica chiamata Wad Madani, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo dell’esercito “regolare” e supportato soprattutto dall’Egitto, è ora sotto una grande pressione. Gran parte dei militari vogliono le sue dimissioni. Sembra infatti avere la meglio il generale Mohamed Hamdan “Dagalo”, ex mercenario del vecchio regime di Omar el-Bashir. Quest’ultimo, nonostante alcuni tentativi di trasferirlo all’Aja per essere giudicato, è ancora in prigione (con tutti i privilegi) in Sudan dove sta scontando le conseguenze di 30 anni di dittatura.
Le Forze di supporto rapido (Rsf) di Dagalo si stanno coprendo di gravissimi crimini sul terreno, ma stanno avanzando in ogni direzione. Le organizzazioni umanitarie sono preoccupate che il recente tour all’estero del generale ribelle, in cerca di sostegno logistico e militare, possa ulteriormente aggravare la situazione nei prossimi giorni.
Dagalo, dall’Etiopia a fine dicembre, ha affermato di aver discusso della «necessità di una rapida fine della guerra tra Rsf ed esercito sudanese». Il jet privato di Dagalo, apparentemente fornito dagli Emirati Arabi Uniti, è passato anche da Abu Dhabi, Uganda, Kenya, e Gibuti. Difficile sapere quali altri attori starebbe incontrando il capo delle milizie, alcuni suoi viaggi rimangono segreti e i colloqui vengono fatti negli aeroporti in totale discrezione. «Gli Emirati hanno interessi strategici nel Corno d'Africa e hanno perseguito investimenti in Sudan – spiegano gli esperti –. Hanno previsto la costruzione di un porto sul Mar Rosso e quindi forniscono un costante flusso di armi e denaro a Dagalo».
Settimana scorsa il Sudan di Burhan ha invece richiamato il suo ambasciatore in Kenya per protestare contro la «calorosa accoglienza riservata al comandante Dagalo da parte del presidente keniano, William Ruto». I massacri che la popolazione sudanese in numerose regioni invece crescono. Stragi sempre difficili da verificare, ma che hanno spinto gli Usa ad affermare che le Rsf hanno commesso «crimini di guerra e crimini contro l’umanità» nel corso degli ultimi mesi, oltre a episodi di «pulizia etnica nello Stato del Darfur occidentale».
È in quest’ultima regione che Dagalo e i suoi miliziani hanno raccolto gran parte dei loro soldati, uccidendo chi non voleva mettersi dalla loro parte e sfuggire all’arruolamento. Dopo nove mesi di conflitto sudanese, con la tensione che ha ormai raggiunto anche l’Etiopia e la Somalia, sembra che il peggio debba ancora arrivare.
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