sabato 8 maggio 2021
Esplosioni in un distretto sciita: 55 morti. I taleban negano ogni responsabilità. Il presidente Ghani li incalza. L'escalation di violenza dopo l'inizio del ritiro Usa e Nato dal primo maggio
Una studentessa rimasta ferita nell'attacco a Kabul

Una studentessa rimasta ferita nell'attacco a Kabul - Ansa

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Tre esplosioni ravvicinate in un quartiere occidentale di Kabul hanno causato la morte di 55 persone, questo pomeriggio, ma il bilancio è ancora provvisorio. Si tratterebbe soprattutto di donne: l’attacco è avvenuto vicino alla scuola superiore Sayed Ul-Shuhada – nel distretto di Dasht-e-Barchi, abitato dagli sciiti Hazara, spesso presso di mira dal militanti sunniti, in particolare del Daesh – che prevede tre turni separati per maschi e femmine, e in quel momento erano presenti le studentesse. I feriti sono almeno 150.

L'autobomba che è stata fatta esplodere vicino a una scuola di Kabul

L'autobomba che è stata fatta esplodere vicino a una scuola di Kabul - Reuters

La versione più accreditata dai media locali è quella dell’esplosione di un’autobomba seguita da quella di altri due ordigni rudimentali. Nessun gruppo ha rivendicato. Un portavoce dei taleban, Zabihullah Mujahid, ha negato il coinvolgimento del gruppo nella strage sostenendo che un tale massacro di civili può essere solo opera del Desh. Ma il presidente afghano Ashraf Ghani ha comunque accusato i taleban di essere responsabili dell’escalation di violenza che sta attraversando il Paese: «Dimostrano di non aver alcun interesse per una soluzione pacifica della crisi attuale», ha detto.

L’obiettivo e l’orario sono stati scelti proprio per massimizzare il numero di vittime: le studentesse stavano uscendo dalla scuola, e i residenti erano in strada a fare acquisti per la festa musulmana di Eid al-Fitr, che, settimana prossima, segnerà la fine del mese di digiuno del Ramadan.

L'arrivo in ospedale dei feriti

L'arrivo in ospedale dei feriti - Ansa

Dal primo maggio in tutto l’Afghanistan, e in particolare a Kabul, è massima allerta: gli americani hanno iniziato il ritiro delle truppe che dovrà essere completato entro l’11 settembre, a 20 anni esatti dagli attacchi alle Torri Gemelle. «Non possiamo continuare il ciclo di estensione o espansione della nostra presenza militare in Afghanistan sperando di creare le condizioni ideali per il nostro ritiro, aspettandoci un risultato diverso», aveva spiegato in aprile il presidente Joe Biden annunciando il disimpegno. La Nato si era subito allineata, riconoscendo che «non esiste una soluzione militare alle sfide che l’Afghanistan deve affrontare». È di tutta evidenza, però, che il Paese è ancora lontanissimo da un’emancipazione pur necessaria, e che il vuoto lasciato dalle forze internazionali rischia di essere riempito da chi campa sull’instabilità. Ci vuole un grosso sforzo di ottimismo per credere che lo «storico» accordo firmato fra Stati Uniti e taleban a Doha il 29 febbraio dell’anno scorso possa tradursi, al netto di tutte le rinegoziazioni, in qualcosa di concreto. Anche perché ormai su tutto il territorio agiscono forze contrapposte, più direttamente collegate al Daesh o ad al-Qaeda, che nessuno – nemmeno i taleban, peraltro generosamente individuati da quell’intesa come “forza di contrasto” della galassia jihadista internazionale – riesce a controllare.
L’unica certezza sta nei numeri: la missione delle Nazioni Unite “Unama” ha rilevato che il numero delle vittime civili nel primo trimestre del 2021 è tornato ai livelli pre-accordo del 2019. Emergency ha fatto sapere che nei primi quattro giorni di maggio, nel solo Centro chirurgico per vittime di guerra di Lashkar-Gah, ha ricevuto più di 100 pazienti. Ieri in una struttura dell’organizzazione sono arrivati 26 feriti. Erano quasi tutte ragazze. Della scuola attaccata a Kabul.

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