Si chiama Uighur Act ed è solo l’ultima spina conficcata dentro i rapporti sempre più tesi tra Stati Uniti e Cina. Approvato dalla Camera Usa, in attesa del passaggio in Senato e della firma da parte del presidente Donald Trump, il provvedimento che vuole tutelare la minoranza turcofona dello Xinjiang, rischia di affossare anche i negoziati sulla guerra commerciale. I tempi ormai sono ridottissimi e il 15 dicembre entreranno in vigore i nuovi dazi Usa sulle merci cinesi. Con le inevitabili ritorsioni di Pechino.
Ieri la Cina ha risposto a muso duro. Se la legge verrà approvata, ci saranno ripercussioni "in importanti aree" della cooperazione con gli Stati Uniti, ha tuonato la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying. Chiunque mini gli interessi della Cina, ha aggiunto la portavoce senza scendere nei dettagli, pagherà il "prezzo dovuto". In mattinata, in un comunicato, il ministero degli Esteri di Pechino aveva espresso forte indignazione al via libera del provvedimento alla Camera dei Rappresentanti Usa, che "infanga deliberatamente" la situazione dei diritti umani nello Xinjiang, e "scredita" gli sforzi della Cina per combattere il terrorismo. Nella nota, il Ministero degli Esteri cinese aveva anche sottolineato che la Cina "risponderà ulteriormente in base alla situazione".
Il disegno di legge, approvato dalla Camera, richiede al presidente degli Stati Uniti di condannare gli abusi contro i musulmani e di chiedere la chiusura dei campi di detenzione di massa nella sua regione. Invita, poi, Trump a imporre sanzioni per la prima volta a un membro del potente Politburo cinese, il segretario del Partito comunista dello Xinjiang Chen Quanguo.
Dilxat Raxit, portavoce del Congresso mondiale uighuro, ha dichiarato che il disegno di legge della Camera rappresenta un'azione importante che si oppone “alla continua spinta da parte della Cina a perseguitare” la minoranza e che l'organizzazione attende con impazienza che Trump lo approvi.
Nelle settimane scorse, la repressione degli uighuri, popolazione musulmana della regione cinese dello Xinjiang è tornata alla ribalta della stampa internazionale. Due inchieste in meno di due settimane hanno raccontato le repressioni del governo cinese sulla minoranza musulmana. Prima le 403 pagine di documenti interni del Partito Comunista Cinese pubblicate lo scorso 16 novembre dal New York Times. Una decina di giorni dopo, un nuovo report di 24 pagine è stato pubblicato dall'International Consortium of Investigative Journalism. In questi documenti, oltre a raccontare i sistemi di repressione nei centri di detenzione, l'Icij analizza gli strumenti tecnologici che userebbe il governo di Pechino per realizzare un "massiccio sistema di sorveglianza e identificazione", al fine di facilitare gli arresti e la detenzione della popolazione musulmana nella remota provincia nord occidentale del Paese. Nel suo report l'Icij inoltre ha raccontato come attraverso un'applicazione diffusa tra i musulmani dell'area, Zapya, fin dal 2016 la polizia cinese sarebbe stata in grado di controllare i file audio e video scambiati all'interno dell'App per identificare e raccogliere informazioni sulle minoranze della popolazione. L'App Zapya è stata creata da una startup cinese, DewMobile, e il suo utilizzo sarebbe stato incoraggiato perché consente lo scambio di file anche nelle zone in cui Internet non è presente, come in buona parte dello Xinjiang. Ad oggi è usata da 1,8 milioni di persone. Gli agenti, riporta il consorzio di giornalisti d'inchiesta, sarebbero stati in grado così di monitorare gli smartphone degli Uiguri segnando i profili ritenuti pericolosi per ulteriori indagini. DewMobile, che ha ricevuto finanziamenti anche da fondi di venture capital statunitensi, ha rifiutato di commentare i documenti pubblicati in queste ore. Mentre il governo cinese ha bollato i report come "pura invenzione e fake news”.