Non si è ancora spenta l’eco del Forum sulla cooperazione Cina-Africa, conclusosi a Pechino lo scorso 6 settembre, che il Global Times – “voce” del Partito comunista cinese – ha suonato (di nuovo) la grancassa. Africa e Cina, i due giganti che insieme rappresentano un terzo della popolazione del pianeta, hanno la vocazione e il diritto di «stare insieme» e di «lavorare per un futuro migliore». Non solo. Il summit si è tradotto anche in un manifesto ideologico. «Di fronte ai tumultuosi venti contrari della de-globalizzazione provenienti dai Paesi sviluppati, Cina e Africa dicono coraggiosamente “no” e continuano a cavalcare l’onda della globalizzazione economica». Un’onda che però, nonostante i proclami, rischia di sommergere il Continente africano. Dopo anni di capillare e profonda penetrazione economica cinese, è possibile tentare un bilancio? Siamo dinanzi a un “saccheggio”, come sostengono in molti, con l’Africa costretta a pagare un conto salato in termine di depredazione delle risorse, di inquinamento e corruzione dilagante? O, al contrario, l’onda cinese ha consentito al gigante demografico di crescere anche economicamente? Sono più luci o le ombre? Difficile tracciare confini netti e linee divisorie definitive. I rapporti tra Cina e Africa sono un tumultuoso mix, un intreccio che assomma tanto le luci che le tenebre.
I numeri certificano che i legami tra i due “attori” sono sempre più stretti. Negli ultimi 20 anni, la Cina è diventata il più grande partner commerciale dell'Africa subsahariana. Il 20% delle esportazioni della regione finisce nel gigante asiatico e il 16% delle importazioni africane proviene dalla Cina. Pechino ha consolidato poi il ruolo di più grande creditore dell'Africa, facendo fluire una quantità costante di finanziamenti per infrastrutture, attività minerarie ed energia. La quota della Cina sul debito pubblico estero totale dell'Africa subsahariana era inferiore al 2% prima del 2005, è cresciuta fino a circa il 17% (134 miliardi di dollari) nel 2021. Altro capitolo sensibile: gli investimenti diretti esteri cinesi. Sono esplosi negli ultimi due decenni. Nel 2003, il flusso annuale di Ide era di 75 milioni di dollari, nel 2022 ha raggiunto il picco di 5 miliardi di dollari.
E tuttavia il quadro potrebbe non rimanere così stabile. All’orizzonte si stagliano diversi segnali di cambiamento. Primo: il rallentamento dell’economia cinese destinato a riverberarsi, inevitabilmente, anche su quella africana. Secondo: la presenza cinese cambia. Se prima erano le imprese statali a guidare l’assalto, oggi è il settore privato a fare la parte da leone. Delle 3.000 imprese cinesi che hanno investito in Africa, oltre il 70% sono aziende del settore privato.
Muta poi il “paniere” delle esportazioni. Le importazioni di petrolio dall'Africa stanno diminuendo con la Cina che si rifornisce sempre di più dai Paesi del Golfo e della Russia. Caso emblematico è quello dell’Angola. Nel 2010 era il secondo esportatore mondiale di petrolio verso la Cina, dopo l'Arabia Saudita. Oggi è scivolato all'ottavo posto.
C’è infine il dossier più delicato: quello del debito. Dal 2001 al 2022, le istituzioni finanziarie di Pechino hanno fornito oltre 170 miliardi di dollari in crediti, prestiti e sovvenzioni alle nazioni africane, principalmente per finanziare progetti legati alla “Belt and Road Initiative”, la cosiddetta Via della seta. Ma i nuovi prestiti sono crollati, passando da 28,4 miliardi di dollari nel 2016 a meno di 2 miliardi nel 2020. E il declino continua. È una sorta di momento verità, di epifania: i governi africani si stanno rendendo conto del fatto che le pratiche opache di prestito e le condizioni problematiche hanno reso le loro economie più fragili. Il rischio di insolvenza per molti è dietro l’angolo.